Più della sensualità nel concetto e nella fisicità visiva che erano predisposizioni sopraffacenti dei lavori d’esordio ““ “EP1” e “EP2” ““ e più dell’R&B distopica che parla al futuro, nel debutto raccontato con “LP1” (2014), il linguaggio di quella impulsiva suggestione decadentista che ha fin qui contraddistinto Tahliah Debrett Barnett diventa imponente tripudio di un’espressione rinascimentale dell’amore: per gli altri prima, per la propria persona poi.
Twigs ha imparato a diventare la musa di sè stessa, la guaritrice dei peccati che attanagliano il linguaggio cinico e rudimentale del mondo a lei circostante, specificatamente sul piano emotivo e relazionale. “MAGDALENE” giostra in maniera deturpante tutti i lineamenti scaturiti da un ciclo emotivo complesso, tormentato, tra vita pubblica e privata, alle prese con relazioni distrutte e problemi di salute lancinanti, che l’hanno costretta in un tracciato impervio della sua vita nel corso degli ultimi anni tra la prima pubblicazione e il secondo album.
è quindi una sopravvivenza fisica e psichica, insieme, dall’immagine disturbate di un mondo di spettri parlanti e di sentieri cupi, ricchi del timore di sentirsi se stessi, quello che ci mostra “MAGDALENE”. La confessione autoreferenziale, proprio in apertura con “thousand eyes”, è il trait d’union tra corporeità e ultra-terreno: “se esco da quella porta, inizierà il nostro ultimo saluto”. Una progressione quasi liturgica, che fa uso di ganci al misticismo medievale e si pronuncia sempre più forte nel cuore pulsante del brano, lasciando che i vocal riempiano gli spazi sempre in maniera netta e calzante. Un gioco che rende l’utilizzo del corpo come uno strumento, ad abbracciarne le atmosfere e poi ad allontanarsi attento, quando è necessario.
Sarà la narrativa incalzante dell’intero album, che si conferma perentoriamente in “home with you”, in cui la voce è tesa a riempire ognuno degli incroci più perversi di questa liturgia, senza timore, con la contaminazione pulsante di decisione e dolcezza. Il messaggio è celato sotto sussurri di vita e ragione, amore e tormento, ancora alla maniera di una nenia che incanta gli spettatori, la figura di Maria Maddalena sempre sullo sfondo della trama. Ma non è altro, alla fine della fiera, che l’ascendente perfetto della retorica che pervade la cute dei testi dell’artista britannica, un pretesto per rinvigorire la sua figura di femminilità attraverso l’immagine eterea e insieme così potente, fatta di un vocabolario di concetti vibranti e mai domi.
è l’estremizzazione dell’FKA twigs-pensiero, che Nicolas Jaar (a firma come produttore in quattro brani, almeno ufficialmente ““ perchè voci dicono essere di più) spinge al limite delle possibilità . Senza, tuttavia, scalzare mai il carattere e l’incisività di un’artista che sovrasta anche il carosello di produttori (tra cui Oneohtrix Point Never , Benny Blanco, Jack Antonoff, Koreless, Oneohtrix Point Never e Arca) che la accompagnano durante il viaggio.
Se l’avanguardia cameristica e l’art-pop di imprecisata destinazione sembra il tramite per gran parte della durata dell’album, non basta lo scontro tra sophomore e glitch a riempire i contorni del contesto, per chiarirne una vera, unica identità . Perchè basta un pianoforte, dominante sullo sfondo, a trasformare tutto in un tripudio di contraddizioni perfettamente puntuali, nel loro circondare la struttura insieme, armonicamente.
La battaglia interiore è quella tra la voglia di esserci per qualcuno, disperatamente, ed essere lì anche per se stessi, allo stesso tempo, con la stessa intenzione e il medesimo impeto interiore. Come l’acume deturpante di “cellophane”, che mai banalmente nella sua romantica e lancinante poetica ci suggerisce fino all’ultima goccia, trasforma in ballata un sogno lucido, quello sulla concretezza di un sentimento, sulla confessione ai limiti delle possibilità di sopportazione: l’esito dell’introspezione di una donna, che parla al suo presente.
L’attrazione e quel ponderato, ostentato fatalismo danzano a braccetto nel racconto delle emozioni fragili e di quelle più forti, per quanto ardue: dall’autoerotismo e il voyeurismo terapeutico di una masturbazione, confessato in “daybed”, alle lodi per una donna travisata dalla storia delle scritture, quella “Mary Magdalene” che omaggia le stanze colme di sincero edonismo con cui FKA twigs cerca di veicolare il proprio essere al mondo. E se persino in “holy terrain”, ascrivibile alla traccia stilisticamente più libera da sacralità e spinte sovrane ““ ed in cui spicca il featuring con il re della scena che sta dominando il suono dell’era contemporanea, Future ““ l’artista di Cheltenham sembra privarsi di giocare con carte facili, la teoria di un contesto globalmente solidissimo continua persistente. Pur trovandoci davanti alla traccia più debole e meno in tiro di un album così intricatamene assuefacente nel suo fatalismo, neanche l’ingresso di elementi sonori più umanizzati ci privano da trame di una scrittura che denota certezze estreme, specie nelle insenature di ogni significato più profondo dietro ai testi.
Il racconto degli amori avuti e di quelli mai avuti, che attendono in un imprecisato domani, con la forza del cinismo di oggi, in un sacro terreno, fatti di “sad day” e forze sovrannaturali, “fallen alien” che incontrano la propria personalità nei territori più fragili e pensati. Quelli in cui lei, Twigs, possa sentirsi amata, come deve. La chiusura, con la struggente e passionale “cellophane”, consegna le domande all’interlocutore che è sempre stato presente, in ascolto, durante tutta la durata del racconto. Il video, in cui si esibisce nella pole dance praticata appositamente per esaltare le qualità del brano e poi diventato un suo culto, comunicativamente e spiritualmente, celebra tutta l’austerità e al tempo stesso la spregiudicatezza di sentirsi liberi. La voglia di trovare la propria voce, attraverso i bisbigli, le parole scontate e soffocate delle altre persone, intorno.
“MAGDALENE” ci consegna una versione matura, decisa e possente di FKA twigs, da performer e artista, da songwriter e soprattutto da persona. Un connubio totale di sensazioni così estreme e così necessarie, che culminano in una scrittura difficilmente arrivabile, da sperimentatori e affini ricercatori della sfera avant-pop, durante questa generazione.