Alzi la mano chi non ha consumato i primi due dischi dei Coldplay? Ci si può anche sbilanciare con l’uso della parola capolavori e se non è proprio così, beh, ci andiamo davvero vicino. Dal terzo in poi s’incomincia a storcere il naso, anche se, “X&Y”, confrontato a quello che viene dopo, è probabilmente il miglior disco della storia della musica. Poi, le sabbie mobili, con qualche rarissima boccata d’ossigeno e un deserto artistico che fa pensare che quei primi dischi là siano stati altri ad averli scritti; la continua ricerca del successo planetario da grandi numeri li ha snaturati e portati verso lidi pacchiani, ma che indubbiamente hanno funzionato, alla fine hanno avuto ragione loro.
In questi giorni i Coldplay se ne escono con un disco nuovo di zecca, un doppio oltretutto. “Everyday Life” è forse il tentativo, mal riuscito lo diciamo subito, di tornare ai fasti qualitativi (senza puntare agli inni da stadio) di un tempo ormai lontano. C’è quella sensazione li, c’è la voglia di non buttarla sul mero commerciale e ritrovare una propria parte più intima, ma mancano le canzoni, totalmente. Alla fine lo trovo un album che passa dal piatto al confuso (fin troppi salti azzardati di generi e sensazioni, in continuo, ma lo stesso Chris Martin accomuna il disco a “una grande sensazione di libertà “), con spunti nuovi presenti e accennati ma mai ben realizzati (forse solo nella piacevole e sperimentale, almeno per i Coldplay, “Arabesque” con quell’arrangiamento con il sax e i fiati in rilievo), e sopratutto, arido di melodie importanti. Lo percepisco come un disco con buone intenzioni di partenza ma che diventa usa e getta o, forse, a questo punto solo getta. Ogni volta che mi approccio ad un loro nuovo lavoro, spero sempre che si verifichi il miracolo di ritrovare quel collettivo in stato di grazia dei primi anni zero, ma puntualmente rimango deluso. Accade pure questa volta. Rispetto agli ultimi orrendi dischi, qui c’è qualcosa in più (giusto nella prima parte “Sunrise”, sulla seconda “Sunset” sorvoliamo), ma troppo poco anche solo per prendere un sei in pagella.
“Trouble in town” è forse il pezzo più riuscito, future ballad da compitino, ma almeno gradevole, “Broken” un gospel quasi traditional (la domanda è: perchè?), “Daddy” è spartana, proprio una ballata pianistica tributo al primo periodo, c’è chi ha detto discreta, a me lascia poco e poi, via via, a riempire le caselle senza veri sussulti, nemmeno i singoli come “Orphans” (impalpabile) o le già stanchissime “Champion of the world” o la stessa “Everyday life” riescono nell’intento.
Consiglierei di usare meglio il tempo libero e passare oltre, ennesimo passo falso.
Photo by Tim Saccenti