I Temples aprono l’uno-due italiano con lo show al Locomotiv Club di Bologna, luogo di culto per la musica indipendente e teatrino ideale per concerti medio-piccoli e da respirare a pochi metri dal palco: fa comunque, almeno a me, un certo effetto vedere la band di Bagshaw e soci esibirsi in una sala che, sulla carta, ha una capienza ufficiale di 217 persone. Avrei pensato, dopo il loro esordio del 2014, che pochi anni dopo avrebbero potuto se non pienare gli stadi, di sicuro performare davanti ad un numero ben più ampio di persone.
Ma questa è un’altra storia, che non sembra poi interessare agli inglesi che si presentano on stage sereni ed appassionati, pronti ad offrire vecchio e nuovo materiale, vista anche la recente uscita del loro terzo lavoro sulla lunga distanza, “Hot Motion”.
Abbigliamento d’ispirazione anni ’70 come al solito, e la novità alla batteria: non più Samuel Toms, ma l’olandese Rens Ottink, già nei PAUW, il cui incastro con i tre membri storici pare cosa naturale, come fosse lì da sempre. Di più, e ovviamente fondamentale, sia a testa bassa sulle pelli che impennando sui piatti, il feeling sembra già oliato alla perfezione.
Salta all’occhio la quasi esclusione, eccezion fatta per “Certainty” praticamente in apertura, di quasi tutto il secondo album “Volcano” (un passo falso, niente da fare) mentre tutto fa leva sulla nuova produzione e sul primo (grande) lavoro in studio. E devo pure ammettere che l’esecuzione live del materiale di “Hot Motion” fa anche rivalutare positivamente l’album stesso: approccio istintivo, a tratti selvatico, muscolare quando serve e dalla perfetta resa live, Bagshaw è un piccolo e simpatico folletto glam, Walmsley al basso fascinoso ed impeccabile, Smith alla chitarra (e quando serve, a premere qualche nota sulla tastiera), in giacca tartan con stella da sceriffo sul petto, trova modo di incidere a suo modo (in “Holy Horses”, è ai limiti del corrosivo con la sua Gibson Flying V).
Tra semplici quanto lisergiche trame, melodie coinvolgenti, i giusti effetti, la performance regge più che bene, senza particolari cali fino alla fine dove è la tripletta “Keep in The Dark/Atomise/Shelter Song” a prendere sul serio gli astanti e dare la giusta scossa. L’encore a quel punto è doveroso, e gli inglesi giocano una sola carta, l’asso pigliatutto “Mesmerise”: giocata che si trasforma in successo quando i Nostri decidono di trasformarne il finale in una lunga coda jam che si muove inizialmente intorno ad un assolo (valido? impegnato) di Bagshaw per poi però deflagrare in una supernova rock delle più trascinanti, che riscuote apprezzamento univoco da parte del pubblico.
Gran bel concerto, Temples in forma, con naturalezza, voglia e sana passione paiono proprio esser riusciti a ricucire (con me compreso) quello strappo che con “Volcano” poteva essere davvero la fine di una storia d’amore appena iniziata: 1-1, palla al centro.