Più che il tanto vituperato ringiovanimento digitale (molto meno fastidioso di tanti vecchi trucchi posticci), è un’altra la cosa di “The Irishman” che mi ha fatto storcere il naso. Moltissime inquadrature magniloquenti, la loro staticità e il tono ostentatamente solenne della narrazione sembrano anelare allo status di classico. Quasi come Scorsese volesse che questo suo ultimo film fosse ricordato in un qualche modo come la sua pellicola definitiva, o perlomeno come la chiosa di un percorso decenni fa.
Initule dire che quando sei Scorsese, che è diventato Scorsese (per chi vi scrive uno dei due, tre migliori cineasti di sempre) facendo praticamente il contrario, questo è un atteggiamento superfluo, molto probabilmente controproducente. Non a caso le scosse elettriche del film arrivano proprio quando “Scorsese fa Scorsese” e ritrae la violenza e i rapporti impersonali dei protagonisti, quando ti gela il sangue con mezzo movimento del volto di un attore o con questa o quell’altra sequenza dalla secchezza brutale. Quando chiude il sipario lasciandolo socchiuso.
“The Irishman” non è il capolavoro osannato da chi sta parlando del migliore Scorsese del millennio (che è o “The Departed” o “The Wolf Of Wall Street”), ma nemmeno la ciofeca, inutilmente lunga e noiosa attaccata dalle orde di detrattori. Anzi, il film le sue tre ore e mezza se le porta molto bene, con una pausina al punto giusto quasi non le si sente. E poi quei tre insieme, come anche le fugaci apparizioni di Keitel e “Todd”, sono un piacere totale.