Quest’anno Babbo Natale ha dovuto risvegliare in anticipo di oltre un mese le sue amate renne per portarci in dono il nuovo lavoro degli statunitensi Greet Death, “New Hell”, uscito lo scorso 8 novembre. Questo disco non solo è entrato di diritto nella mia top ten di fine anno, ma ha addirittura conquistato il podio e, probabilmente, anche un posto nella mia personale classifica degli album del decennio.
Vi starete domandando se siamo di fronte ad un capolavoro. Beh, la risposta è che siamo molto vicini, a parere di chi scrive, per il suo genere e per gli amanti dello stesso e il voto riportato nel cerchietto giallo in alto alla vostra destra che, a questo punto dell’articolo potrete agilmente scorgere, ne è la dimostrazione.
Un po’ di storia. I Greet Death sono un trio proveniente da Flint, Michigan, famosa per aver dato i natali al noto documentarista e regista Michael Moore, composto da Logan Gaval (voce, chitarra), Sam Boyhtari (voce, basso) e Jim Versluis (batteria).
Questo “New hell” arriva a due anni di distanza dall’ottimo esordio, “Dixeland”, ed è stato registrato da Nick Diener (The Swellers) agli Oneder Studios e masterizzato da Jay Maas alla Getaway Recording.
Siamo in pieno territorio shoegaze,con le classiche derivazioni di genere orientate all’indie-rock e psychedelic rock, nel quale i quarantotto minuti di questo gioiellino ci investono in un agglomerato di pesantissime chitarre che a loro volta trovano rifugio nella perfetta simbiosi vocale di Gaval e Boyhtari.
Già con il brano d’apertura la band di Flint mette le cose in chiaro. “Circles of hell” inizia con un candido arpeggio per poi esplodere in pesanti chitarre su una base sdolcinata e poi finire con un andirivieni di altre chitarre ultra pesanti. La voce di Gaval mi ha riportato alla memoria quella di Robert Duncan McVey dei Longview, band indie-rock di Manchester. Stessa cosa per la bellissima “Crush” che, con la sua delicata melodia, ricorda molto alcune sonorità di “Mercury”, l’unico album pubblicato dalla predetta band macuniana.
Il secondo brano “Do you feel nothing?”, uno dei miei preferiti, è affidato alle corde vocali androgine di Boyhtari che su un tappeto di rullate di tamburi martellanti immersi nelle pesanti skitarrate di Gaval pronuncia: “Here comes the sun/Here comes the shit again”, e sul finale pure “And what are you thinking about/When I got you on my mind man?/Do you feel nothing?Fucking nothing?”.
L’acustica ballata “Let it Die” armonizza alla perfezione le voci di Gaval e Boyhtari offrendo una tregua tra i primi due brani mentre la successiva “I’m Gonna Hate What You Have Done” si spaccia inizialmente per un ballatone emo fino al subentro della maliziosa voce di Boyhtari alla quale compete alzare il livello, anche di scrittura dove l’inferno torna a far da padrone: “Embracing the final glimpse of a blood-red moon/Well lately I’ve been treating with the devil in blue/Well maybe if he cuts me loose I’ll get my days in hell back too/Maybe I’ll keep dreaming if I’m dreaming of you”“…inferno di chitarre da scomodare timidamente i The Smashing Pumpkins.
Il tipico mood marchio di fabbrica della band di Billy Corgan si fa sentire ancora nelle successive “Entertainment”, la quale sembra decollare da un momento all’altro, ma solo per finta, mentre le chitarre si ancorano alle voci alternate del duo Gaval/Boyhtari, e in “Strange days” in un intreccio pop-rock, hard-rock mentre si sentenzia: “And now all we seem to love is the darkness”.
Il testo cupo e ruvido di “Strain” (“The phantom of your heart creeps around/Like a shadow cast on the ground/I was possessed, siphoned your love like a demon/I was obsessed, trying to strangle the feeling”) pone l’accento sul brano più tosto del disco. Le melodiche voci di Gaval/Boyhtari fanno da preludio alle chiassose e distorte chitarre che evocano tipo una “We’re no here” dei Mogwai.
Compito della title track di quasi dieci minuti chiudere questa perla di fine decennio. Sulle parole tristi e malinconiche del pezzo si snoda un incredibile sound ipnotico e ripetitivo che conduce all’epilogo del disco con la frase finale “Here comes a new hell, you are my bad dream”, mentre le chitarre ora svaniscono in una pacata melodia.
Probabilmente questi tre ragazzi del Michigan avranno discendenti nel Nevada, in particolare dalle parti dell’Area 51, e si perchè questo disco è alieno!
Niente di innovativo o rivoluzionario, ma le voci coordinate e alternate di Gaval/Boyhtari, le battute violente di Versluis, le chitarre iper heavy proposte come se non ci fosse un domani, la varietà dei brani – nessuno che ricordi un altro – racchiudono un sound spaziale!
Non si può fare a meno di quest’album, garantito.