Poco importa che i due protagonisti di “Marriage Story”, interpretati superbamente da Driver e Johansson, siano rispettivamente un geniale regista emergente di teatro e la sua musa e prima attrice. Il mondo in cui il loro matrimonio è nato per poi deteriorarsi è soltanto una cornice, che casomai rende ancora più patetiche e meschine le evoluzioni della loro separazione (si veda la battuta lapidaria del giudice che, quasi infastidito dall’atteggiamento della coppia e dei rispettivi avvocati, non vuole dedicar loro più tempo di quanto ne spetti a chi dispone di mezzi minori).
L’inizio del film, con i due attori che recitano quello che amavano del loro partner, mentre sullo schermo scorrono le immagini felici di dieci anni di matrimonio e un bambino, alla luce di quello che verrà mostrato subito dopo è una coltellata al cuore. Badate bene, oggi state così, tutti trombette e partite al Monopoly, ma è una sola scena a separarvi dal baratro.
Inizialmente ben disposti verso l’un l’altro, propensi a risolverla con le buone, i due giovani artisti inizieranno una battaglia legale brutale, con al centro, ovviamente, il figlioletto, i patrimoni e le carriere dei due. Avvocati mefistofelici, cose non dette, emozioni represse, agoismo, convenzioni sociali, catapultano i due giovani in una spirale distruttiva quasi involontaria.
Nonostante sia tra le più divertenti, perchè in “Marriage Story” c’è tempo anche per qualche risata, una scena che mi ha devastato è stata quella della visita dell’apaticissima assistente sociale. Solo chi ha vissuto una di queste visite, può capire la grandezza di Driver e del copione, perfetti nell’inscenare la pressione che un evento del genere comporta e la dolce maldestrezza di un padre (o una madre) che cerca di dimostrare quanto in ogni altro momento gli viene naturale. Senza dimenticare la tensione del figlioletto, che finesce inesorabilmente con il sentirsi corresponsabile dell’esito.
Incredibile anche la scrittura dei personaggi secondari, su tutti l’avvocato un po’ amica un po’ squalo di Laura Dern, che in tre battute e due gesti si svelano in tutta la loro potenza. Alla Dern basta togliersi le scarpe e avvicinarsi a Scarlett per farci capire di cosa è capace.
Conciliante, sebbene amaro, il finale, che evita il disastro grazie alla capacità della coppia di fermarsi giusto in tempo. Un ulteriore merito della sceneggiatura è quello di non parteggiare mai per nessuno dei due contendeti, tanto fa far affezionare lo spettatore ad entrambi, ai difetti di entrambi e giore quando riescono a rispettarsi di nuovo, a volersi nuovamente, diversamente bene. Se la prima scena del film è una pugnalata, la chiusura con l’allacciamento della scarpa è una carezza gentilissima.
Ultimo incredibile prodigio di un film già perfetto è l’uso delle due città al centro della disputa, New York e Los Angeles, che rappresentano con la loro proverbiale dicotomia le esigenze inconciliabili dei protagonisti.