#10) JAMILA WOODS
Legacy!Legacy!
[Jagjaguwar]

Jamila Woods conferma il suo debordante talento con un album che omaggia, sin dai titoli delle canzoni proposte, molte celebrità  black, non solo a dir la verità  pescati dall’ambito musicale. Muovendosi disinvolta tra moderno r’n’b, funky e soul, può finalmente svincolarsi da quei paragoni che l’hanno sin dagli esordi contrassegnata: un po’ Lauryn Hill, molto di Erykah Badu, senza scomodare le grandissime icone come Nina Simone. Con questa convincente prova, la Woods se ne affranca proponendo un linguaggio contaminato ma molto personale.

#9) BE FOREST
Knocturne
[We Were Never Being Boring]
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I Be Forest con questo nuovo lavoro si discostano dalle atmosfere dreamy che li avevano contraddistinti sin qui, senza però rinunciare a quel tocco etereo, visionario e a suoni fluidi e dilatati. Solo che in questa occasione, Costanza, Erica e Nicola ci conducono nei meandri più oscuri e cupi del loro personale, affascinante viaggio musicale. Dal vivo sono un’autentica bomba.

#8) JADE BIRD
Jade Bird
[Glassnote]
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Già  i singoli avevano colpito molto il mio immaginario: lei così giovane, libera, dall’indole splendidamente rock, la voce ancora inevitabilmente acerba (in fondo ha solo 22 anni) ma già  molto espressiva. L’album si muove leggiadro setacciando l’apparato rock, via via legandolo al pop, al country, senza disdegnare qualche spruzzata di blues. Un ottimo esordio davvero quello di Jade Bird, fresco e coinvolgente dalla prima all’ultima nota.

#7) THESE NEW PURITANS
Inside The Rose
[Infectious]
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La saga dei gemelli Jack e George Barnett si arricchisce di un ulteriore pregevole tassello, che ne rafforza una posizione preminente in un genere di difficile collocamento ma che trova le sue radici in un’estetica post-punk e dark-wave. Ma le etichette sembrano stare veramente strette ai These New Puritans che con questo album – giunto a ben sei anni dal capolavoro precedente – dimostrano di saper mediare al meglio le tante istanze che muovono i loro animi inquieti. La parola d’ordine è: intensità !

#6) JENNIFER GENTLE
Jennifer Gentle
[La Tempesta Dischi]
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Mancavano davvero da troppo tempo i Jennifer Gentle, splendida realtà  veneta ma con un’anima fortemente internazionale, come anche la loro esperienza discografica racconta (come dimenticare gli album usciti sotto l’egida della mitica Sub Pop?) e soprattutto come dimostrano le loro canzoni, così incatalogabili, se non nel macro mondo della psichedelia. Marco Fasolo, factotum della band, non è certo rimasto con le mani in mano nei 9 anni che hanno separato questo disco eponimo, pubblicato dalla solida indie-label “La Tempesta”, dal precedente. Solo rimanendo al 2019 va ricordato almeno il primo album del supergruppo I Hate My Village (fuori dalla mia Top Ten per un soffio) , che ha prodotto e lo ha visto impegnato come bassista nei concerti. Ma il boom lo ha fatto principalmente con questo favoloso disco del ritorno della sigla Jennifer Gentle: ascoltarlo è come andare al luna park, tante e particolari sono le trovate musicali irresistibili.

#5) FONTAINES D.C.
Dogrel
[Partisan]
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L’esordio dei giovani irlandesi Fontaines D.C. è stato davvero col botto! Un po’ alla vecchia maniera, come fra l’altro anche l’immaginario e i riferimenti musicali e letterari sembrano suggerirci, hanno dapprima dato alle stampe diversi singoli, abili a far crescere l’attesa attorno a loro. L’album li contiene tutti e amplifica se possibile le buonissime intuizioni dei cinque rockers capitanati da Grian Chatten, vocalist trascinante e assai carismatico. Della nuova ondata di gruppi che stanno facendo riscoprire il rock nella sua forma più pura e genuina, sono proprio i Fontaines D.C. quelli ad aver colpito maggiormente nel segno in questo 2019.

#4) SAM FENDER
Hypersonic Missiles
[Polydor]
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E in un anno caratterizzato da esordi notevoli, non poteva mancare di certo nella mia lista il debut-album dell’inglese Sam Fender, cantautore che nonostante la giovane età  mostra una maturità  compositiva eccezionale, oltre che un talento assolutamente fuori dal comune. Non teme di volare alto, considerando che sembra far di tutto per non dissuadere la critica dal paragonarlo a grandi nomi come Bruce Springsteen! Inevitabilmente il pathos con cui sovente interpreta i suoi brani, lo sconfinamento in tematiche sociali e politiche, anche scomode, ci dicono di un ragazzo che, sotto l’apparente timidezza, nasconde un animus pugnandi che si manifesta poi in forma epica tra le pieghe delle sue canzoni. Ne sentiremo parlare a lungo: la sensazione è che il meglio debba ancora venire.

#3) NICK CAVE AND THE BAD SEEDS
Ghosteen
[Ghosteen Ltd.]
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A settembre si era propagata improvvisa la notizia di un nuovo album di Nick Cave & The Bad Seeds  ed eravamo preparati a un lavoro che in qualche modo risentisse ancora del pesantissimo lutto che aveva colpito il grande cantautore australiano e che avrebbe inevitabilmente condizionato la lavorazione di “Skeleton Tree”, uscito nel 2016, a un solo anno di distanza dalla perdita del figlio Arthur. “Ghosteen” gioca però su un altro piano: è un album catartico, nel quale è in fase di transito l’elaborazione di quella immane tragedia famigliare. Warren Ellis in particolare è il contraltare musicale di Cave, in un album dai toni lenti, a tratti spettrale, ma con squarci di pura magia sonora, in cui la discesa negli oscuri abissi è talvolta stringente ma forse l’unica via possibile per poi rialzarsi e rivedere la luce. E’ un album veramente autentico, a suo modo viscerale, non facile da assimilare ma che giocoforza non può che indurre alla più profonda empatia.

#2) MICHAEL KIWANUKA
Kiwanuka
[Interscope]
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Giunto al terzo album l’inglese di origine ugandese Michael Kiwanuka ha definitivamente trovato sè stesso e ridefinito al meglio una mistura musicale che comprende soul e funky in gran quantità  (ma soprattutto qualità ) riversati però in chiave assolutamente contemporanea. Uscito sul finire dell’anno, mi ha conquistato sin dai primi ascolti. Lo seguo dagli inizi e apprezzo il fatto che non rincorra il successo facile (con la voce che si ritrova potrebbe prestarsi a ogni tipo di operazione musicale, cantare qualsiasi motivetto chè tanto lo renderebbe godibile) e che centellini le sue uscite discografiche, dando il giusto valore a ciò che scrive e produce. Kiwanuka è maturato, tratta ora temi anche impegnati, non teme di esporsi ma l’ascolto non è mai pesante, anzi, la produzione del sodale Danger Mouse e la cura degli arrangiamenti rendono il tutto molto gradevole. E’ un album di rara eleganza che trasuda passione.

#1) BIG THIEF
U.F.O.F.
[4AD]
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In vetta alla mia classifica si piazzano i newyorchesi Big Thief, che di album in album mi confermano la bontà  della loro opera, le loro straordinarie qualità , in particolare quelle della leader Adrianne Lenker, una delle migliori frontwomen del nuovo millennio. E’ lei a tessere le trame del quartetto, a dipingere pregevoli acquerelli, decantare immaginifiche storie e a guidare la macchina verso territori folk pop che possono sconfinare talvolta in una tenue elettronica come concretizzare magnificamente atmosfere dreamy. Versatili e prolifici, i Big Thief dal 2016 ad oggi hanno pubblicato ben 4 album (senza contare la prova solista della Lenker un anno fa) e solo nel 2019, a distanza di pochi mesi da “U.F.O.F.” hanno replicato con “Two Hands”, che ha mostrato un’altra faccia della medaglia, più diretta forse ma altrettanto affascinante. Più che un toccare il ferro finchè è caldo, però, sembra proprio che i Nostri vogliano “approfittare” di questo stato di grazia che si è come impossessato di loro. L’ispirazione continua a volare alta. E’ un album questo che mi è entrato sotto pelle, che ha marchiato a fuoco un anno denso di uscite interessanti, anche fra i nomi nuovi e che mi indusse (perdonate la parentesi personale) a scrivere una contro-recensione qui sul sito, perchè quel 6,5, pur motivato, mi suonava proprio come un’ingiustizia…