Un colpo al cerchio e uno alla botte per il buon àsgeir, che anche questa volta trova il fedele aiuto di John Grant nel tradurre le sue composizioni dalla lingua madre all’inglese.
Da dove deriva il nostro incipit? Beh, dal fatto che il cantante islandese cerca di accontentare un po’ tutti, realizzando un prodotto ben confezionato ma dal cuore plastificato e preconfezionato, a rischi zero. Il punto di riferimento, quando viaggia in territori folktronici, è il big Justin Vernon, mentre quando il tutto assume toni più morbidi, eleganti ed emotivi ecco che ci troviamo davanti a un suono da cartolina, in cui manca proprio l’anima più profonda o quello spirito, realmente desolato, dei luoghi in cui il disco è stato creato.
Il lavoro scorre via senza grossi sussulti, molto ordinato ed educato, ci mancherebbe, ma non si toglie di dosso una patina di già sentito a cui, grazie a un maggior trasporto emotivo e una maggior personalità , anche l’ascoltatore avrebbe potuto passar sopra. La cosa invece non avviene.
Arrivati a questo punto della sua carriera possiamo dire che àsgeir non è certo quella big thing di cui tanto si vociferava al suo esordio, ma un onestissimo mestierante che, in qualche occasione, si è comunque distinto in positivo, come accade a tanti altri che però non hanno particolare esposizione mediatica. Nulla di più e nulla di meno.