Premessa fondamentale, quanto semplicistica: il sottoscritto rientra nella schiera di coloro che hanno adorato i primi due album a firma Tame Impala, e ritiene “Currents”, per quanto portatore di malia e talento, un passaggio che lo ha soddisfatto al minimo sindacale. E non certo perchè ritenevo, come alcuni, Kevin Parker l’ennesimo potenziale salvatore del rock.
5 anni per un album e allora ecco che, al netto del calibro ormai chiaramente spostatosi dallo psych-rock al psych-pop, la curiosità – più che le attese- ci fosse eccome.
Sia chiaro, “The Slow Rush” per quanto edibile, non è un album da ascolto singolo: va testato, riprovato, ha bisogno di un debito grado di immersione. Il trend sonoro di “Currents” è confermato, e questo è il new deal di Kevin Parker: prendere o lasciare. E non si può discutere nemmeno, ancora una volta, su fattura, resa, fascino e magnetismo. Ci sono peraltro pezzi di levatura notevole (“Borderline”), momenti incalzanti (“Lost in Yesterday”), attraenti quanto ipnotici (la pulsante “It Might Be Time”, o ancora “Breathe Deeper”), e tra synth e tastiera si sente anche ruggire qualche chitarra che fu (“One More Hour”). Il tutto scorre liquido, a tratti chillout, con innegabile gusto vintage ’70-’80 con chiare inclinazioni disco e una – immarcescibile, quella- buona aliquota lisergica.
Ogni cosa è al suo posto, perchè Parker è abile demiurgo. E 5 anni, poi, sono tempo più che necessario per puntellare e limare.
Va anche detto che per quanto portatore di charme e classe, lungi da me mettermi in ginocchio in adorazione come altri colleghi: di questo “The Slow Rush” riconosco l’attrattiva, la sua ragion d’essere, i suoi momenti di grazia. Ma se cercassi il masterpiece o un lavoro davvero soddisfacente, non sarà certo questo album ad appagarmi.