“Dawn-light smiles on you leaving, my contentment“.
Le nostre essenze sono fragili e minuscole, ma allo stesso tempo così immense e resistenti da poter contenere dentro di sè, qualsiasi alba, anche la più lucente. Dobbiamo solo restare noi stessi, non farci atterrire da ciò che ci sta attorno, dagli uomini di potere, dai loro governi, dalle loro ombre infelici che ci rubano il tempo, le nostre passioni, la nostra contentezza, perchè loro non hanno alcuna possibilità di gustarne il sapore.
Quanti inverni sono passati? Quante volte le foglie sono tornate sugli alberi da quel lontano 1966? Non serve a nulla contarle, l’unica cosa che conta davvero è riuscire a riempire il vuoto – quello che sentiamo dentro di noi, quello che si crea quando perdiamo qualcuno a cui tenevamo parecchio. Uno dei modi più efficaci per riempirlo è la musica.
Ed è quello che hanno fatto Eric Clapton ed i musicisti che lo accompagnavano, il 17 Febbraio, all’Eventim Apollo di Londra, un concerto per onorare Ginger Baker, mitico batterista dei Cream.
Il concerto l’hanno aperto con un brano storico della band inglese, un inno all’amore, ma anche un augurio a ritrovarsi, ad incontrarsi ancora, prima o poi, a non temere lo scorrere inesorabile del tempo, perchè anche il tempo dovrà arrendersi dinanzi alla capacità della vita di rinnovarsi e di risorgere dalle sue ceneri mortali.
Il brano è stato suonato – chissà se anche alla Rai se ne sono accorti o erano troppo impegnati a telefono con qualche ambasciatore – da Eric Clapton e Roger Waters. Ma il bassista dei Pink Floyd non era il solo artista invitato, c’erano anche Nile Rodgers, Ronnie Wood, Steve Winwood, Paul Carrack e il figlio di Baker, Kofi.
“Era un gran bastardo“, ha detto Eric agli spettatori presenti, “ma gli volevo bene e lui ne voleva a me“. Parole sincere, parole sentite, parole semplici, perchè non importa quanto sia grande o luminosa la tua cometa, se nessuno ne intercetterà la traiettoria e se tu non permetterai che ciò avvenga: resterà solamente qualcosa di perduto e sfuggente.
Spesso, invece, sono proprio quelle che consideriamo le avversità , le delusioni, i problemi, a permetterci di muoverci e diventare più brillanti: “If it wasn’t for bad luck, / I wouldn’t have no luck at all“, se non fosse stato per la sfortuna, non avrei avuto alcuna fortuna. Forse, allora, è meglio così, è meglio nascere sotto una cattiva stella.
Photo: Zoran Veselinovic [CC BY-SA 2.0], via Wikimedia Commons