Quella casa che chiamano del Sole Levante, sappiamo benissimo non fosse altro che una casa chiusa nel quartiere a luci rosse di New Orleans, ma, ben presto, la nostalgia dei suoi versi, che nella versione femminile del brano si materializza nel dolore delle giovani prigioniere ed in quella maschile diventa solitudine e pentimento di un ragazzo di passaggio, trasforma la canzone in una sorta di inno alla resistenza ed alla sopportazione.
Come gli schiavi di colore costretti a lavorare nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti d’America; come i giovani degli anni Sessanta decisi ad opporsi alla chiamata alle armi per il Vietnam ed a qualsiasi altra guerra; come i prigionieri stretti gli uni accanto agli altri nelle prigioni affollate dell’America Latina; come quelli che poi scomparvero nell’ombra e che divennero fantasmi e non ancora hanno trovato la loro pace; come tutti quelli costretti a scegliere il mare perchè la loro terra non è affatto un luogo sicuro in cui restare; come tutti gli invisibili di ieri, di oggi, di domani.
Dunque che anche le nostre case siano case del Sole Levante.
Purtroppo l’attuale crisi sanitaria ha reso amari due momenti apparentemente banali ““ ma fondamentali e significativi ““ delle nostre giornate: quello nel quale usciamo di casa e quello in cui vi facciamo ritorno. Oggi li viviamo, entrambi, con ansia; entrambi con incertezza; entrambi con paura; paura di infettarci; paura di infettare, a nostra volta, le persone che ci sono vicine e con cui condividiamo la nostra esistenza.
Speriamo di poter tornare, quanto prima, ai giorni nei quali uscivamo di casa perchè volevamo comprendere quanto fosse magnifico e stimolante il mondo; e poi, tornavamo, puntualmente, a casa nostra, perchè solo così sentivamo di essere ancora noi stessi e non esserci perduti per sempre.
Adesso, però, è nostro dovere, etico e sociale, restare qui. Abbiamo pensato, allora, di ascoltare assieme a voi queste canzoni “domestiche”; brani che fossero in grado di esprimere tutta la rassicurante intimità della propria casa; il bisogno di ritrovare quei sapori e quei profumi familiari che hanno caratterizzato la nostra stessa crescita; la consapevolezza di esser vicini a chi si vuol bene, nonostante la distanza, nonostante l’impossibilità di stringergli la mano o di accarezzargli il viso; il fascino d’un libro sfogliato lentamente, quello dell’inchiostro che crea i suoi universi immaginari sullo spazio ristretto d’un foglio bianco, quello delle vecchie foto, delle scatole chiuse, dei cassetti stracolmi di cianfrusaglie; in fondo noi siamo anche questo, ma, spesso, ce ne dimentichiamo, risucchiati dal vortice di mille impegni, mille faccende, mille obblighi, mille appuntamenti.
Restiamo qui, riprendiamo possesso delle nostre case e capiremo meglio quello che siamo davvero, quello che non ci serve, quello di cui abbiamo assolutamente bisogno.
“Home, home again / I like to be here when I can“, cantano i Pink Floyd nella parte finale di “Time”, la così detta “Breathe (Reprise)”; non è strano che una canzone che parla dello scorrere inesorabile del tempo, dei momenti che ticchettano via, dei treni che rischiamo di perdere per sempre, del bisogno di correre per realizzare i propri progetti, termini con la semplice immagine di un uomo che si riscalda attorno al fuoco? No, non lo è affatto, perchè, nonostante tutto quello che di grandioso e fantastico quell’uomo pensa di aver realizzato, egli non sarà assolutamente nulla, se non avrà una casa a cui tornare.
La nostra casa, in fondo, è l’unico luogo nel quale possiamo fermarci ad ascoltare la voce del vento che si agita nelle nostre coscienze; un vento, le cui flebili parole sono, il più delle volte, sepolte dal quotidiano frastuono delle nostre esistenze. Voci che parlano di isole antiche, culle della nostra cultura; isole che alcuni uomini hanno messo al confine delle proprie nazioni, per impedire ad altri uomini di avere, ancora una volta, una casa, dopo che la loro, di casa, è stata bombardata, incendiata e distrutta da altri uomini; uomini così meschini da nascondere la loro brama di potere dietro il nome di un Dio; un Dio talmente sciocco da disperdere il suo stesso gregge ed incendiarne gli ovili.
“Nessuno esce di casa, a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo“, recita una toccante poesia di Warsan Shire, una poetessa somalo-britannica; questa poesia è stata scritta poco tempo fa, nel 2016, ed esprime, in modo crudo, quanto sia importante poter avere un luogo sicuro per sè stessi e per i propri cari, un vero e proprio tempio in cui poter conservare sogni e ricordi, lasciando che la nostra stessa essenza ne possa riempire le stanze, ne possa impregnare la pietra ed il legno, il vetro ed il cemento, la forma e la materia, come scrive un altro poeta, Lou Reed, nella sua “My House”.
Ogni volta che qualcosa ci spaventa, ogni volta che ci sentiamo in pericolo, il primo posto a cui pensiamo è quello che consideriamo essere casa nostra, luogo in cui il passato ed il futuro respirano l’uno accanto all’altro e nel quale manteniamo traccia di ciò che siamo, di ciò che eravamo, di ciò che vorremmo diventare. Solo così riusciamo a non perderci, a non lasciarci trasportare dalla corrente, perchè la nostra casa sarà sempre l’appiglio sicuro sul quale poter recuperare le forze, rimettersi in sesto, fisicamente e mentalmente, ed esaminare le cose per ciò che sono davvero, senza farsi prendere dalla frenesia e soprattutto senza credere alle menzogne.
Casa è il luogo nel quale ci concentriamo, nel quale mettiamo a fuoco tutto ciò che ci provoca sofferenza. A noi, a coloro che amiamo. Casa è il luogo nel quale non abbiamo alcun bisogno di mentire, nel quale non copriamo le delusioni che abbiamo arrecato agli altri, nè quelle che gli altri hanno arrecato a noi. Casa è il luogo in cui non nascondiamo; non mascheriamo; non simuliamo; non mentiamo; casa è dove possiamo indossare una schifosa corona di merda. Ma casa è anche l’unico luogo nel quale ce ne possiamo davvero liberare per sempre.
Perchè la casa e tutto ciò che ci sta attorno, la strada, il quartiere, il paese o il vecchio bar, è lo specchio dove confrontarsi col tempo che è trascorso, con quello che abbiamo fatto, mentre beviamo una tazza di caffè caldo o una birra ghiacciata, sfogliamo un libro o fissiamo una vecchia fotografia e ci soffermiamo non solo sugli aspetti luccicanti delle nostre vite, ma anche e soprattutto su quelli più arrugginiti, sui volti che sono cambiati, ma nonostante tutto ci restano familiari.
Le medesime cose che cambiano, ma che in fondo restano uguali, di cui parla Bruce Springsteen nella sua “My Hometown”, un bagaglio enorme di sensazioni e sapori che il tempo non può assolutamente intaccare, spesso crediamo di perderle, ma, invece, loro sono lì, in un angolo nascosto del cuore o in una soffitta mentale, pronte a venirci incontro e farci compagnia ogni volta che ne abbiamo bisogno, ogni volta che ci sentiamo abbandonati e senza più quelle finte sicurezze che scandivano le ore delle nostre giornate.
“You know I’m a dreamer, but my heart’s of gold”… / I’m on my way, I’m on my way / Home sweet home“; casa dolce casa, c’è bisogno di aggiungere altro?