E’ sempre un vero piacere ascoltare la musica di Katie Crutchfield, ovvero Waxahatchee, che seguiamo ormai da parecchi anni.
Questo progetto, nato nel 2011, dopo lo scioglimento delle P.S. Eliot, la band punk-pop che condivideva con la gemella Allison, ha visto la musicista nativa dell’Alabama continuare a evolversi nel corso degli anni e questo weekend i suoi album sono arrivati a quota cinque.
“Out In The Storm”, il suo album precedente, era uscito nell’estate del 2017, quando la trentunenne statunitense era passata anche in Italia, ma soprattutto quando aveva iniziato la sua relazione sentimentale con un altro ottimo musicista indie-rock come Kevin Morby, che, per sua stessa ammissione, le ha sicuramente dato un supporto importante (almeno a livello di fiducia ed entusiasmo) nella realizzazione di questo nuovo lavoro: oltre a ciò, un altro fattore fondamentale nell’economia del disco è la sua decisione ““ sicuramente non facile ““ di smettere di bere, che l’ha senza dubbio aiutata a vedere le cose da nuove prospettive.
Registrato insieme a Bobby Colombo e Bill Lennox dei Bonny Doon tra il Sonic Ranch di Tornillo, Texas e il Long Pond di Stuyvesant, New York con il produttore Brad Cook in cabina di regia, questo nuovo LP vede la Crutchfield prendersi una pausa dalle sue esplorazioni indie-rock per spostarsi verso paesaggi sonori più morbidi, tranquilli e aperti di Americana e country-folk.
Una delle canzoni più corte tra le undici presenti in “Saint Cloud”, l’iniziale “Oxbow” non è certo la migliore introduzione per comprendere dove ci porterà questo album: con le sue potenti percussioni e il suo uso dei synth, questo pezzo, comunque interessante, sembra proprio lontano da ciò che succederà nei minuti successivi.
Già dal secondo brano della tracklist, il recentissimo e bellissimo singolo “Can’t Do Much”, invece, Katie si sposta sui già citati territori country-folk, così cari alla tradizione musicale dello stato che le ha dato i natali, ovvero l’Alabama: rimaniamo piacevolmente colpiti non solo dalla bella melodia dolce-amara della canzone, ma anche dalle sue chitarre gentili, dai suoi grandi spazi e soprattutto dalla voce di Waxahatchee che rimane al centro di tutto.
Un’altra influenza importante per la Cruthfield su questo disco, quella di Bob Dylan, si puo’ notare in maniera evidente nella gentile, ma determinata “Hell”, mentre in “Arkadelphia”, il pezzo più suggestivo e morbido del disco, Katie condivide ricordi della sua città natale, Birmingham, e del suo passato.
La conclusiva “St. Cloud”, infine, è basata prevalentemente su piano e voce: assolutamente scarna e malinconica, ci regala, però, un bellissimo senso di intimità che possiamo e vogliamo conservare nel nostro cuore.
“Saint Cloud” ci mostra un nuovo volto della musicista statunitense, decisamente meno rumoroso e frastornato rispetto ai suoi lavori precedenti, magari – in un certo senso – anche più pop e la vede recuperare le influenze musicali della sua terra d’origine, l’Alabama. Un viaggio importante, sensibile e toccante che è destinato a rimanere nel tempo.
Photo Credit: Molly Matalon