Fabrizio Tavernelli, conosciuto per la sua lunga attività musicale iniziata negli anni ’80 alla guida degli En Manque D’Autre e sfociata poi negli Acid Folk Alleanza (AFA), attivi per tutto il decennio successivo, può vantare una solida carriera da solista che l’ha visto autore di album magari non di semplicissima recezione, ma dove non mancano idee e qualità .
D’altronde Taver non è mai stato uno che si accontenta, men che meno interessato a progetti usa e getta, non avendo cercato nelle sue precedenti esperienze scorciatoie o facili consensi.
I riscontri comunque, specie con gli AFA, non erano tardati ad arrivare, considerato l’indubbio valore di album come “Fumana Mandala” e soprattutto “Nomade psichico”, entrambi tra i migliori lavori pubblicati dal Consorzio Produttori Indipendenti. Dischi che rifuggivano le mode e che possedevano un linguaggio personale, sia narrativo che meramente musicale.
Tra i progetti che esulavano dalla sua band, ma con la quale poi contribuì attivamente, uno dei più significativi fu sicuramente quello legato a “Materiale Resistente”, uscito nel 1995 per i 50 anni della Liberazione, di cui fu l’ideatore.
Insomma, l’artista di Correggio è sempre stato molto attento alla realtà che lo circonda, non tralasciando le istanze sociali. Lo dimostrano a maggior ragione i suoi lavori in proprio: quattro album in cui vanno a braccetto l’animo da cantautore con quello mai sopito di sperimentatore.
In particolare si era fatto apprezzare il suo più recente “Infanti”, pubblicato due anni fa, tutto incentrato sui bambini, indifesi dinnanzi alle guerre di questo folle mondo. Ora a cambiare è il topos letterario, ma il suo percorso procede sulla falsariga di quell’interessante concept album con questo nuovo “Homo distopiens”.
Si tratta infatti di un album in egual modo denso di contenuti, veicolati talvolta con un linguaggio più evocativo che descrittivo, ma indubbiamente efficace.
E’ un disco che ci regala un’immagine di noi, dell’uomo e della Terra che lo ospita, che più che distopica somiglia tremendamente alla realtà (drammatica) che stiamo vivendo, quasi Tavernelli fosse stato preveggente.
I brani trasudano emotività e tensione, sin dall’iniziale “Cose sull’orlo”, in cui l’atmosfera si fa cupa e rarefatta, e sembra in effetti molto rappresentativa della maniera in cui stiamo vivendo attualmente.
Ovviamente nemmeno il buon Taver avrebbe potuto prevedere una simile emergenza sanitaria, ma si sa che l’artista possiede una sensibilità innata a cogliere alcuni segnali, e ad esempio una questione come quella ambientale è da sempre molto presente nei suoi testi.
“Distopia muscolare” sembra suggerirci qualcosa in tal senso (“La Terra si incendia/Rende l’aria tossica/Inquieta l’umanità /Rase al suolo le città “), mentre la successiva “Tormentoni e tormenti” è più scanzonata, pur caratterizzata da pungente ironia, e sorretta da una bislacca musica elettronica post-punk.
Con “Lune cinesi” e “Spire”, torniamo invece a godere di scenari sognanti; in particolare la seconda presenta un arrangiamento ben congegnato, tra richiami all’Oriente, e forte di un finale strumentale arabeggiante.
L’atmosfera cambia decisamente con l’invocazione della successiva “Oumuamua”, impreziosita dal Coro della Cappella Musicale San Francesco da Paola di Reggio Emilia diretto da Silvia Perucchetti. Qui avviene l’incontro con l’Altro (“Messaggero che giungi da lontano/Inviato dal futuro o dal passato/Nave astrale che appari nel cielo/Rivela il mistero”) e i toni si fanno via via solenni, con la tromba di Simone Copellini a svettare.
Nell’album si va incontro anche a momenti di pieno scoramento, sintetizzati ne “Il mondo senza noi”, in cui si dipingono paesaggi apocalittici. In “Secondo fine” invece emerge l’animo più intimo dell’autore, in una vera e propria dichiarazione d’intenti, che ben presto però si reimmerge nel contesto drammatico che va delineando tutto l’album: ne “L’uccello giardiniere” il protagonista infatti ci illustra neri presagi (“Attendo inverni infiniti/Attendo incendi sempre vivi/Quando tutto se ne andrà in un attimo/Sommerso, bruciato, svanito”).
E che dire di “Pessimismo co(s)mico”, pur sorretto da un ritmo policromo e da una cruda ironia?
Il compito di chiudere l’album, lasciandoci per lo meno una parvenza di speranza dovrebbe spettare a “Ruscarola” e a “Bargigli e pappagorge” ma entrambe finiscono con l’assolvere il compito a metà .
La prima, in dialetto emiliano, è invero piuttosto ansiogena, per ritmo e interpretazione, mentre la seconda pur partita con buon propositi (“E adesso dovrei scrivere una canzone piena di epicità /che celebra la raggiunta senilità “), ci riporta subito in maniera schietta a una realtà – stavolta quella che vivono gli anziani – ancora “complicata”: “E invece col cuore dico essere vecchi fa un po’ schifo”.
Fabrizio Tavernelli non tenta quindi di rassicurare l’ascoltatore in alcun modo, lanciando un vero monito in musica, anche se ricordiamo che lui allude comunque a un uomo che si ritrova a vivere una realtà distopica.
Che poi ciò che ci viene trasmesso attraverso queste 12 tracce abbia finito per assomigliare tremendamente a quanto siamo costretti a vivere nelle ultime settimane, lo cataloghiamo alla voce “coincidenza”, ma resta il fatto che non si può rimanere indifferenti di fronte a un album così pregno di significati.
Credit foto: Jarno Iotti