Con la classe e la competenza tipica del vero musicista, Stian Westerhus prosegue il suo particolarissimo percorso di evoluzione artistica con le sette tracce di “Redundance”. Il chitarrista norvegese, già membro dei Puma e dei Monolithic (con l’ex batterista dei Motorpsycho Kenneth Kapstad), è noto ai più per i suoi trascorsi nei Jaga Jazzist e per una recente collaborazione con gli Ulver. Potendo far affidamento su un background di altissimo livello ma tutto sommato di nicchia, Westerhus non sembra porsi minimamente il problema di produrre album in grado di sedurre le masse.
Da buon studioso di estrazione jazz, il suo principale obiettivo è la sperimentazione. Una ricerca che si concentra in primis sul contesto sonoro. In “Redundance”, infatti, è spesso l’utilizzo di effetti strani e indecifrabili a definire le caratteristiche e lo stile dei brani. Non si tratta di una novità , visto che anche precedentemente Stian Westerhus si era mosso seguendo simili coordinate.
Digressioni rumoristiche e atonali, tanto per fare un esempio, già contraddistinguevano le composizioni strumentali di “Pitch Black Star Sprangled”, impenetrabili e prive di qualsiasi forma di struttura – in bilico tra la quiete dell’ambient e l’inquietudine del noise. Tale metodo di lavoro viene oggi applicato in un ambito assai diverso rispetto al passato, con l’artista scandinavo impegnato su ben due fronti: ai consueti numeri da virtuoso alla chitarra si accompagna una prestazione maiuscola al microfono.
La voce di Westerhus è la vera protagonista di “Redundance”. Il suo timbro si pone a metà strada tra il croonerismo straniante di Scott Walker e l’intimismo folk di Justin Vernon, dal quale si recupera anche un certo gusto per le armonie sovrapposte. Questo disco è frutto di un’evidente maturazione che pone le sue basi proprio sull’evoluzione del talento canoro del norvegese. La maggior confidenza con la materia melodica permette all’ex Jaga Jazzist di esplorare in lungo e in largo un universo musicale che, potrà sembrare una bestemmia, si potrebbe inserire in un solco simil-pop.
Il punto di riferimento resta però sempre il suono, talmente rilevante nell’opera di Stian Westerhus da spazzar via qualsiasi tentativo di costruire canzoni in maniera tradizionale. Sono le atmosfere, oltre agli strumenti impiegati, a dare una connotazione ai pezzi di “Redundance”. I beat grezzi che aprono “Chase The New Morning”, episodio dal fortissimo sapore “walkeriano”, richiamano le ritmiche cupe e pulsanti dell’industrial. Il contrasto tra l’elettronica pesante e la voce blues nell’intensa “All Your Wolves” crea un piacevole disorientamento che, purtroppo, non si ripete in “Verona”, davvero troppo legata alla lezione dei Radiohead.
L’ultra-effettata “There’s A Light”, accostando genuinità rock ed eleganze digitali, riporta alla mente i Nine Inch Nails di “Hesitation Marks”. La fragilissima anima folk dell’acustica “Walk The Line” viene improvvisamente squarciata da un assolo incredibilmente maestoso e drammatico; la fortissima carica elettrica non si spegne nella successiva “Hold On”, abrasiva e al tempo stesso raffinata. A chiudere l’album è la splendida title track, una piano ballad dai toni notturni che si risolve in una progressione di accordi presa in prestito dal jazz più astruso e astratto. Complesso, impegnativo, a tratti persino pretenzioso”…”Redundance” necessità di svariati ascolti per essere digerito. Una volta fatto, è praticamente impossibile negarne il fascino.