“Unorthodox” narra la fuga della giovane Esty dalla comunità Hasidic (ebrei ultra-ortodossi di origine ungherese, prevalentemente discendenti di vittime dell’olocausto) di Brooklyn verso Berlino, città dove la madre lesbica e ripudiata si è rifatta, con tutte le difficoltà del caso (alle donne della comunità viene praticamente impedito di farsi una cultura o di avere una formazione che esuli dal destino di progenitrici e dai dettami dell’antico testamento), una vita.
La narrazione procede su due piani narrativi, entrambi affascinanti.
Il primo è basato sulla vita di Esty nella comunità di Brooklyn prima della fuga, sul matrimonio difficile con Yanky (il personaggio che nel corso della storia subisce la trasformazione più commovente), la ritualità schiacciante, ottundente, di una comunità chiusa e involuta. Nel frattempo seguiamo la dolce Esty che, stordita dalla libertà e dall’ampiezza della capitale tedesca, si fa strada timidamente, ma con tenacia nella sua nuova vita. L’intensa interpetazione di Shira Haas è una delle cose piè belle che possiate incontrare ultimamente sul piccolo schermo, impossibile non incollarsi ai suoi occhi ricolmi allo stesso tempo di paura e determinazione.
C’è qualche piccola falla in sede di sceneggiatura causata dall’indecisione degli autori tra il realismo della parte newyorkese e alcune licenze da favoletta di quella berlinese, ma la potenza del racconto e la commozione e l’empatia che questo è capace di generare sono tali da renderle sopportabili.
Sebbene il minutaggio piuttosto contenuto per una serie (4 episodi da circa 50 minuti), l’approfondimento dei personaggi è molto convincente ed facile appassionarsi ai loro percorsi oltre che alla storia di Esty.
A me ad esempio è piaciuto molto quello che dovrebbe essere il cattivo (tra virgolette) della storia, Moische, il soldato del rabbino mandato a Berlino a ritrovare Esty. Perpetua con pervicacia i meccanismi torchianti della minoranza, ma mentre lo fa, approfitta della sua trasferta berlinese per giocare d’azzardo e andare a prostitute, diventando così simbolo del fallimento, cancro della comunità auto-ghettizzante.