Bob Geldof e i Boomtown Rats furono attori protagonisti della scena punk rock, dal 1977, anno del loro omonimo debutto fino a “In the Long Grass” del 1984. Poi l’impegno di Geldof nell’organizzare quello che tutti noi conosciamo come il Live Aid dopo aver creato l’evento Band Aid riunendo i migliori artisti inglesi e irlandesi del momento e scrivendo con Midge Ure una delle canzoni più famose della storia, quel “Do They Know It’s Christmas?” le cui note avranno ormai saturato l’etere e probabilmente raggiunto la periferia della nostra galassia. I Boomtown Rats hanno avuto anche un buon successo discografico, soprattutto con il secondo album “A tonic for the Troup” che comprende “Rat Trap” (primo singolo di una band irlandese a raggiungere il numero uno delle classifiche di vendita inglesi) e soprattutto con “The Fine Art of Surfacing” che con “I Don’t Like Mondays” consacrò la band di Dublino tra le più conosciute, ora anche oltre i confini britannici. Purtroppo gli ultimi lavori furono dei flop: la band non riuscì a costruirsi un’identità : troppo ancorata ai canoni rock tradizionali e al tentativo di essere alternativi con i testi di Geldof sempre più spinti dal fermento che dalla coerenza. Anche la carriera solista di Bob non decolla, forse più preso dai suoi impegni in campo sociale e di imprenditore.
Trentasei anni più tardi Geldof riunisce parte della band e a chi gli chiede il motivo di questo ritorno, risponde:
“Se vogliamo dirla tutta, era arrivato il momento di riascoltare di nuovo QUEL rumore. Ma l’ho capito soltanto quando ho sentito gli individui di questo gruppo ridare vita al loro specifico baccano“. C’era stata una reunion nel 2013 per una serie di concerti e festival ma da allora le strade si erano nuovamente divise. Nel giugno di quell’anno i Boomtown Rats si ritrovarono sull’isola di Wight davanti a 100.000 persone e il loro concerto si concluse con un brano inedito, “The Boomtown Rats” che è anche la canzone che chiude “Citizen of Boomtown”. L’album è stato prodotto dal bassista Pete Briquette e le dieci canzoni registrate nello studio ricavato nella sua abitazione di Londra. La maggior parte dei brani è stata registrata in quel periodo. Dieci in totale, un numero che Geldof considera perfetto per un album.
è un viaggio nel tempo, s’inizia con il classico power pop di “Trash Glam Baby” per sfiorare i territori del primo Duca Bianco in “Sweet Thing”. “Monster Monkeys” è un ambient soul quasi da Algiers mentre un southern rock blueseggiante risuona in “She Said No”. La ballata introspettiva e decadente “Passing Through” non poteva mancare e Geldof la dedica alla propria figlia Peaches, drammaticamente scomparsa suicida alcuni anni fa. Altra ballata Dylaniana con “Here’s Postcard” che precede una marcetta con filastrocca degna di un “All Together Now” dei Fab Four (K.I.S.S.). Torniamo al blues rockeggiante di “Rock ‘n Roll Yè Yè” che fa un po’ il verso al classicone “Sweet Home Alabama”. L’album si chiude con due brani un pochino fuori dai canoni della band: “Get a Grip” dal sound Big Beat che FatBoy Slim ha reso famoso sulle spiagge di Brighton e “Boomtown Rats” dai ritmi Techno.
Immaginiamo che i quattro ragazzi di Dublino abbiano ritrovato in quella casa di Acton l’energia dei giorni migliori, quando con i loro vent’anni, il punk e la voglia di sfondare iniziarono la loro brillante carriera.
“Citizen of Boomtown” sembra più un pretesto per ritrovarsi, scrivere qualche brano senza troppo sbattimento e avere un tour da onorare in giro per il pianeta. Una sorta di passerella finale per una band che ha scritto alcune pagine importanti della storia del rock. Un grande inchino a Mr Bob Geldof è d’obbligo, per quello che è riuscito a creare, per le band che è riuscito a rimettere insieme in quegli anni per il Live Aid e per le grandi emozioni che quelle sue manifestazioni benefiche hanno generato.