I Charmer fanno parte di quella specie, forse alcune volte anche troppo presente in natura, di cui al primo ascolto puoi riconoscere ascolti, influenze, stili, gusti, libri letti e riferimenti vari. Questa dote potrebbe essere scambiata, in alcuni casi per lucidità e chiarezza, in altri potrebbe assumere le sembianze di quel fantasma che è l’assenza di cose da dire.
“Ivy”, disco da sophomore della band del Midwest degli Usa, imbocca bene la strada e prendendo i sentieri giusti è riconoscibile e anzi fa del citazionismo sonoro la sua forza.
Il processo di crescita dal primo disco è percepibile e lo si evince anche dalla sicurezza della voce di Daignault che con una leggerezza disarmante trasforma l’emo in un quasi spoken-punk. Forse la bellezza è proprio nella contraddizione dato che non ha senso parlare di spoken-punk. I Charmer modulano l’uso della vocalità in modo molto simile ad una band come i Dowsing.
In brani come “Dead Plants” si sente quella vibrazione, l’esitazione della sala prove di cui forse un genere come questo deve irrorarsi e mai privarsi. Brani come “Chandelier” e “Sunshine Magazine” si buttano nella foce, nell’abbraccio caldo degli American Football, ma emergono piuttosto bene e senza dare l’impressione di essere delle macchiette, delle imitazioni.
“Ivy” allora è un disco che fa del suo essere immerso in quel clichè, che alcune volte sembra l’etica DIY, un tratto interessante. La capacità per parlare in modo fresco di una storia fatta di incontri, college, perseveranza, sale prove scassate, ci vuole e parte proprio da un’esigenza del racconto. A noi poi di queste menate filosofiche ed esistenziali può anche fregarcene, in fondo queste informazioni sono buone per le agiografie, a noi interessano i dischi e “Ivy” è un disco, uno bello.