Provengono da Chicago, la windy city, la città dove si dice nacque il Rock’n Roll quando nel 1955 Chuck Berry incise “Maybellene”. Chicago da sempre culla del jazz e del blues, della house music, degli Smashing Pumpinks, di Pitchfork e dei Wilco. In questa fredda città in riva al lago Michigan, Nick Gohl (voce e chitarra), Mike Clawson (chitarra), Drew McBride (basso) e Shiraz Bhatti formano i Deeper che con “Auto-pain” pubblicano il loro sophomore dopo l’album omonimo del 2018. Provengono naturalmente dalla scena DIY e sono cresciuti con le influenze e l’amore per band come Television, Gang of Four, Wire e Devo.
Pagano certamente un tributo a questi ultimi in termini di sound ma con l’arricchimento e il nutrimento di quattro decadi di post punk, passando per la new wave degli anni ottanta e non solo per la particolare tonalità della voce di Nick, spesso accostata a quella di Robert Smith. L’intro di “Lake Song” potrebbe farci credere di ascoltare un brano dal primo album di Siouxsie and the Banshees o, forse ancor di più, dei Depeche Mode. Ma potremmo anche immaginali sullo stesso palco con Bodega e Flasher e visti i tempi di isolamento a cui siamo forzati, questa immagine è anche uno sfacciato desiderio personale!
L’album è una raccolta di brani dove il tema ricorrente è lo stato d’animo di sofferenza interiore e la ricerca del modo per uscirne. Il filo conduttore che lega i dodici brani è il romanzo di Aldous Huxley “Brave New World”. Scritto negli anni trenta è una sorta di racconto distopico dove la sofferenza è elusa grazie a una pillola. Vi è anche un lato tragico che si nasconde tra i solchi di questo disco. Il chitarrista e grande amico di Nick, Mike Clawson, si è suicidato. La registrazione dell’album non era neppure terminata. Una concomitanza di fatti e emozioni donano a questo disco un senso compiuto, una miscela di gioa, tristezza, rabbia e liberazione che possono sfuggire ad un ascolto veloce e superficiale. La batteria di Shiraz Bhatti è spettacolare, inquina brani molto schematici con variazioni di ritmo che possiamo goderci in “4U” o “This Heat”. Bhatti è di origine pakistana e chissà se oltre all’omaggio in lingua urdu sulla copertina dell’album il suo DNA asiatico gli abbia donato un senso del ritmo decisamente fuori dall’ordinario. Si è citata la copertina che raffigura il Northwestern Prentice Women’s Hospital di Chicago, struttura architettonica ormai demolita che, possiamo immaginare, rappresenta un luogo dove la sofferenza può trasformarsi nella gioia della guarigione o nel dramma della malattia e della morte.
“Esoteric” e “Run” aprono l’album come due aerei supersonici che oltrepassano il muro del suono, “This Heat” è il singolo che non delude, “The Knife” sembra rubato ai Cure di “Seventeen Seconds” ma è un album che va ascoltato dall’inizio all’epilogo senza separazioni, ogni brano è legato al successivo e inala il primo respiro aggrappandosi all’ultima nota del precedente.
I Deeper non prendono l’esistenza alla leggera ma la loro musica non ci trascina nella depressione. Anzi, c’è più gioia che tristezza, c’è quella linfa vitale che vuole sopprimere i nostri pensieri negativi, la stessa linfa che ci solleva da terra e ci invita a proseguire nutrendoci dell’insegnamento che la caduta ci ha donato. In “Helena’s Flowers”, a un certo punto la musica si ferma e parte un applauso. E’ l’applauso dovuto, quello che scatta alla fine di uno spettacolo appagante di cui conservi il biglietto. Quel biglietto che ti troverai tra le dita per caso, molti anni dopo, mentre prepari una scatola prima di un trasloco. E mentre lo osservi, con le scritte ormai sbiadite, ti ricordi di quella sera e senti l’emozione riaffiorare.
Credit Foto: Jacob Pesci