Preceduto dai singoli “Vegetable”, “Seeing Eye Do”, “Ouch (yup)” e “title track” con l’album “Floatr” ritornano gli Happyness. In questi tre anni trascorsi dall’uscita del loro secondo album “Write In”, sono accaduti fatti che hanno messo in pericolo il percorso della band londinese. L’uscita dal gruppo di Benji Compston per il suo nuovo progetto Jelly Boy ha lasciato Jonny Allan e Ash Kenazi in una situazione di difficile gestione, come possiamo capire dalle parole di Jonny in occasione dell’uscita dell’album:” l’abbiamo registrato in molti posti casuali durante anni in cui le cose nelle nostre vite sembravano molto folli e insicure. è stato il nostro modo di dare un senso a quello stato d’animo, quindi in un certo senso, questo album esce, non a caso, in un momento opportunamente incasinato” .
Ai due storici fondatori si sono uniti in studio (e per i futuri live) Max Bloom e Scott Roach alle chitarre e Anna Vincent al basso. A chi avesse già dato una sbirciata ai più recenti video della band non sarà di certo sfuggita la trasformazione di Ash Kenazi in una Drag Queen di certo non timida, capace di attirare l’attenzione del pubblico anche durante l’esecuzione dei brani, difficile impresa per un batterista, di solito ben impallato dai colleghi.
Sin dalle prime note di “title track” s”intuisce che la rotta della band è sempre ben direzionata verso le sonorità Alt-rock d’oltre oceano degli anni anni ’90, periodo in cui band come Sophia, Pavement e Sparklehorse avevano spezzato più di un cuoricino.
“Vegetable” rimane il brano a cui ci si affeziona per la melodia malinconica e per l’arrangiamento ben studiato con i passaggi basso/batteria a invitare le chitarre nelle varie versioni acustiche, distorte e dai riff coinvolgenti fino al finale “Even as the rain gets up my back I know I’m bound for nothing – Even as my head overreacts I know I’m barely something” che ti entra subito in testa. Se “What Isn’t Nurture” è il classico pezzo lento e zuccheroso, “Anvil Bitch” attraversa vari ritmi e sensazioni che ben introducono “Ouch (yup)” briosa con il suo bel solo di chitarra finale che con “Undone” ci ricorda i Teenage Fanclub nella loro versione melodica.
Canzoni scritte nel “anni migliori e peggiori” della loro vita (eh si, i testi degli Happyness, come le loro dichiarazioni, rischiano di fare andare in corto circuito la nostra già debole capacità di comprensione) sono in realtà delle ruvide storie che raccontano di come gli insuccessi possano anche essere origine e causa di gioie e che la cosa più importante è trovare la forza di ricominciare. Come hanno fatto Jon e Ash per esempio, e se indossiamo un bel vestitino rosa da ballerina il nuovo inizio è senza dubbio molto più intrigante.
“I wouldn’t really call it a bad time“, “non potrei davvero definirlo un brutto periodo” canta Allan nella conclusiva “Seeing Eye Do”. Siamo d’accordo. “Floatr” cerca e trova il giusto equilibrio tra le melodie pulite (ascolta “Bothsidesing”), ballate da musical teatrali (ascolta ” When I’m Far Away “) e ritmi blandi e sinuosi a là Eels (“Milk Float”). Un buon nuovo inizio. Ci aspettiamo grandi cose dagli Happyness.
Image credit: Holly Whitaker