A partire dal trionfo a Cannes fino a quello agli Oscar, si è fatto un gran parlare (meritatamente) di “Parasite”. Un film non esente da difetti che, grazie a una brillante messa in scena della moderna lotta di classe, si è imposto come fenomeno internazionale e modello di cinema da imitare.
Anche “Shoplifters” ha vinto la Palma d’oro, l’anno prima. Pur partendo da presupposti simili a quelli di “Parasite”, mettendo in scena sobborghi giapponesi devastati dall’urbanizzazione selvaggia e popolati da ceti bassi dove l’inganno è all’ordine del giorno, propone però una forma cinematografica completamente diversa da quella di Joon-ho, lontanissima dal frenetico spettacolo Hollywoodiano, vicina invece al vecchio neorealismo.
Se non si hanno problemi con lentezza atavica, dialoghi abbozzati, interni angusti e assenza di trama quasi totale (gli accadimenti veri e propri e le rivelazioni sono ridotti all’ultimo quarto di film), la potenza della descrizione della povertà , della sua brutalità e della sua poetica dolcezza, operata da “Shoplifter” lascia davvero di stucco.
Se ne è parlato troppo di meno di “Parasite” ed è un peccato.