Innanzitutto, facciamo un plauso ai Paradise Lost: con l’opportunità di posticipare l’uscita di “Obsidian” a tempi più felici, hanno preferito non modificare la tabella di marcia e rispettare la data stabilita originariamente. Un piccolo regalo ai fan, che avranno così la possibilità di tirarsi un po’ su di morale in questo spiacevole periodo di emergenza sanitaria.
Voi giustamente potreste pensare: chi mai al mondo andrebbe a mettere su un disco di questi pesi massimi della tristezza per ritrovare il buon umore perduto? Sta di fatto che lo storico quintetto britannico ci ha appena donato un appiglio al quale ancorarci per non sprofondare definitivamente nello sconforto. Perchè “Obsidian” è davvero un grandissimo album, ispirato come non mai e pieno zeppo di ottimi brani.
Arrivata alla sedicesima tappa di una carriera iniziata poco più di trent’anni fa, la band britannica decide di riabbracciare con vigore le sonorità più pesanti del passato e rispolverare le antiche origini death doom. In questo senso, Nick Holmes e compagni seguono una tendenza iniziata già nel 2015 con il fortunato “The Plague Within”, che di certo aveva poco a che vedere con il gothic rock radio-friendly di “One Second” o il synth rock di “Host”.
Non aspettatevi però alcuna minestra riscaldata da un gruppo come i Paradise Lost che, tra growl demoniaci e cover di “Smalltown Boy”, ha sempre saputo stupire enormemente i propri ascoltatori. E con ogni probabilità anche le undici tracce di “Obsidian”, con il loro equilibratissimo mix tra chitarre infernali e oscure melodie, saranno accolte con un pizzico di sorpresa dai nostalgici dei fasti di “Icon” o “Draconian Times”, cui i nostri sembrano guardare come modelli di riferimento.
Ma forse sarebbe meglio descrivere questo lavoro come un esemplare compendio del trasformismo e della creatività di cinque affiatatissimi artisti che non hanno mai avuto paura di mettersi alla prova, anche quando il passo sembrava più lungo della gamba. E chissà che non sia proprio per questo motivo che “Obsidian” è apparentemente privo di difetti: l’intensità che contraddistingue l’apripista “Darker Thoughts”, con uno strepitoso assolo di Greg Mackintosh, la ritroviamo pressochè intatta nel gioiello doom “Fall From Grace” e in “Ghosts”, una perla gotica che riporta alla mente i migliori Sisters Of Mercy (ma anche gli indimenticati Type O Negative) per stamparsi immediatamente in testa.
Il resto dell’album si mantiene su livelli alti e non delude le aspettative: pesante e moderno nei suoni, elegante negli arrangiamenti, mai banale nell’alternarsi tra momenti più soft e altri più heavy (da non perdere la devastante “Ravenghast”). Comunque, per quanto mi riguarda, gli avrei messo otto in pagella anche solo per le prime tre canzoni in lista. Il mezzo punto in aggiunta è un meritatissimo bonus.