In questi giorni pieni di noia e mestizia, mi capita spesso di imbattermi nelle parole di individui più o meno esperti che provano a delineare gli scenari futuri del mondo post-pandemia. Si tratta perlopiù di sciocchezze da clickbaiting, farcite di espressioni inquietanti e visioni distopiche che, con quel briciolo di speranza che ancora ci resta, si auspica non diventino mai e poi mai realtà .

Tra le tante profezie sbucate fuori dal focolaio infodemico ve n’è una particolarmente spiacevole: l’estinzione delle grandi città . Luoghi tradizionalmente brulicanti di vita e stimoli destinati a trasformarsi in tristi deserti urbani. Nessun segno di civiltà , ma una quantità  incredibile di rifiuti e materiali di scarto lasciati in eredità  da donne e uomini in fuga. Se tutto questo accadesse davvero, chi potrebbe ridare dignità  alle vestigia abbandonate? Semplice: gli Einstà¼rzende Neubauten.

I maestri teutonici dell’industrial hanno costruito una carriera lunga quarant’anni attorno al recupero e al riutilizzo di rottami e avanzi di ogni sorta, convertiti in strumenti a percussione tanto inverosimili quanto efficaci. Sin dai primissimi ascolti “Alles in Allem”, il loro nuovo album, mi ha dato l’impressione di essere la colonna sonora ideale per il silenzioso sfacelo delle nostre metropoli.

Dico silenzioso perchè, a differenza del clangore metallico che caratterizzava la produzione giovanile di Blixa Bargeld e compagni, questo disco si muove seguendo coordinate decisamente più quiete. Con la maturità , la furia distruttiva degli anni ’80 è stata spazzata via: ne sopravvivono alcune tracce nei frangenti più abrasivi di “Zivilisatorisches Missgeschick”, che comunque non si discosta troppo dal resto del lavoro nel suo dare risalto a elementi scarni e disadorni.

Qui, tuttavia, c’è da fare una precisazione: per quanto riguarda gli arrangiamenti, i dieci brani di “Alles in Allem” sembrano dividersi in due gruppi distinti. Da una parte abbiamo l’approccio minimal ma accessibile di una “Ten Grand Goldie” dalle suggestive atmosfere lugubri, ricalcate sul modello post-punk dei Bauhaus; dall’altra, invece, c’è la straordinaria ricchezza sinfonica di “Seven Screws”, “Tempelhof” e “Taschen”, tre semi-ballad per archi e scarti industriali rese estremamente commoventi dall’ottima interpretazione di Bargeld.

La melodia è l’ingrediente di base in “Alles in Allem”. Gli Einstà¼rzende Neubauten, pur non rinunciando alle loro peculiarità , rifuggono dalle antiche tentazioni rumoristiche ed elettroniche per trovar conforto nel blues alieno di “Am Landwehrkanal”, nelle note eteree di “Möbliertes Lied” e nella cupa pacatezza di “Grazer Damm” e della title track, decadenti come questo tremendo 2020.

Purtroppo non c’è più la genialità  di una volta, ma ci si accontenta senza troppe storie. L’album merita e, come da tradizione quando si parla della band berlinese, ci insegna una lezione importante: è sempre meglio riciclare che buttare via. Perchè abbandonare ciò che può essere modificato e rivitalizzato? Tra cumuli di lamiere e calcinacci, si insinua una luce di speranza.