“Ci piace giocare con il concetto di tensione. Non tutto è come sembra al primo ascolto“. Così Sam York, frontwoman dei Public Practice, ci raccontava a proposito dei brani presenti nel loro primo album “Gentle Gear”. L’ottimo EP “Distance Is a Mirror” di fine 2018 ci aveva fatto conoscere questa promettente band di New York nata dall’unione di Wall e Beverly e che sin dall’inizio aveva trovato un suono caratteristico, una miscela di post punk che strizza l’occhio al funk con l’intento di creare un ritmo che scateni le danze . Un suono che puzza di scantinati newyorchesi e che pone la band di Sam York in una invidiabile posizione di outsider grazie alla qualità e alla unicità della loro musica.
Con queste premesse, per chi già conosceva e apprezzava i PP, il brano “Moon”, piazzato in apertura, avrà di certo fatto sorgere qualche perplessità riguardo la direzione sonora intrapresa dal quartetto. Il brano infatti è costruito su una base di synth sostenuto dalla batteria di Scott Rosenthal e, successivamente, dalle poche note della chitarra distorta e tagliente di Vince McClelland. Sam neppure canta, uno spoken word decisamente spiazzante, “portami sulla luna, voglio vedere tutte le luci“. Un viaggio spaziale che termina con la consapevolezza di essere lei stessa luna e la luce che desiderava vedere. Davvero un pezzo inaspettato, che , come abbiamo scoperto in seguito, fu uno dei primi brani incisi da Vince dopo lo scioglimento dei Wall , un demo dove Sam trovò le parole durante un viaggio notturno in Texas.”C’è qualcosa nell’umore di questa canzone che abbiamo sempre trovato accattivante e cerebrale, mi è sembrato giusto iniziare il disco con esso, è l’inizio di un viaggio”.
Un viaggio che dal secondo brano “Cities”ci conduce su binari più familiari. Dopo la secca rullata iniziale arriva il basso di Drew Citron e con la chitarra funky torna il ritmo accattivante e la voce calda di Sam (che con la Citron trova una spalla vocale di tutto rispetto per tutto l’album). Quel “Shining down so brightly Ba-ba-ba-ba-ba-ba” è di una bellezza assoluta. Un’esplosione mancata, quel “ba ba ba” che fa morire il ritornello è grandioso.
L’album inizia a sfavillare con brani che mostrano le varie sfaccettature e le tante frecce a disposizione della band. Dal già noto singolo “Disposable” che dalla chitarra decisamente rock si getta in un ritornello esotico e ritmato, si passa all’esatto contrario di “Each Other “che esplode nel chorus permeato di post punk dopo l’inizio pop-dance.
L’essenza funky della band non ci abbandona mai, “Underneath” ci trafigge per la sensuale linea di basso e per il solo di Vince (ma che effetto ha architettato?), mentre si manifesta inaspettatamente prorompendo in “My Head” dopo l’introduzione reggae.
Segue a ruota “Compromised” che tocca punti del nostro sistema nervoso che neppure sospettavamo di avere e ci costringe a movimenti imbarazzanti mentre la York intona”You don’t want to live a lie, but it’s easy” più B52’s che mai. Il treno impazzito e inesorabile di “Understanding” ci porta nella provocante “Leave Me Alone”, lenta, sorniona con quel basso che funkeggia anche a questi ritmi tranquilli, forse per prender fiato perchè la stazione successiva è nei dintorni di Seattle con il minuto e 56″ di “How I Like It”, sosta per dimostrarci che se c’è da picchiare sulle corde e sulle pelli i PP non si tirano indietro.
Chiude la scaletta “Hesitation” che con “See You When I Want To” ci fa capire di cosa è capace questa band.
Di solito, a questo punto di una recensione, si chiude con un giudizio. Non credo si debba aggiungere altro, si è ben capito che l’album ci piace e superflua sarebbe la sviolinata finale.
Credit Photo: Okay Ogut