Che bello il nuovo disco di Ongaku, progetto milanese all’esordio sulla lunga distanza discografica dopo la pubblicazione di due EP già capaci di preludiare sulla qualità artistica della band.
“Fuori dalla nebbia” è un percorso musico-gastronomico in dieci tracce (finalmente un progetto dal respiro lungo, nell’era della brachilachia del nuovo pop, capace di esprimersi solo per singoli) che sanno di melpot stilistico, poetico e linguistico: ogni brano è anima a sè, senza per questo perdere di identità e coerenza nell’autoreferenzialità della sua bellezza autonoma ma interconnessa al concept del disco.
Insomma, se l’ambiente di riferimento sembra essere quello dell’indie anni ’90, è anche vero che le scuole d’ascolto di Ongaku sono molteplici e si respirano tutte: c’è tanto cantautorato nella scrittura del trio, e contaminazioni musicali che vanno dai Decibel ai primi Bluvertigo e Verdena fino ai Red Hot Chili Peppers, senza smettere di ammiccare agli anni Settanta.
Il tutto, a far da megafono ad un urlo che sa di generazionale: Ongaku prova a farsi faro nella nebbia di una generazione dispersa nel fumo delle proprio pretese, delle proprie paure e delle proprie più atroci crisi di identità .
Ecco che, in un contesto simile, le parole si fanno lama e perforano l’inspessito tessuto cardiaco dell’ascoltatore assopito (come me, ad esempio), facendo breccia per forma e non solo per contenuto: la scrittura è audace, a tratti sfrontata, ma mai retorica o peggio, consolante; c’è tanta rabbia nei gesti eleganti di Ongaku, e dopotutto non c’è rivoluzione che non necessiti di estremi atti di gentilezza, nell’era della barbarie istituzionalizzata.