Lo possiamo dire: finalmente è tornata Phoebe Bridgers! Una delle nostre giovani songwriter preferite, ci aveva segnato profondamente con il suo debutto “Stranger In The Alps”, uscito nel settembre 2017 per Dead Oceans: da allora la musicista nativa di Ukiah, California è stata sempre presente e attiva nella scena musicale mondiale. Dalle collaborazioni con Matt Berninger e The 1975, passando per l’ottimo EP con le Boygenius (il gruppo creato insieme alle sue amiche Julien Baker e Lucy Dacus) fino all’altrettanto eccellente album dei Better Oblivion Community Center (Phoebe + Conor Oberst dei Bright Eyes), uscito nel gennaio dello scorso anno, le attività extracurriculum “ufficiale” della quasi ventiseinne residente a Los Angeles sono state parecchie in questi ultimi anni.
L’attesa per questo secondo LP era davvero tanta, ma la Bridgers non ha avuto paura di prendersi le sue responsabilità e ha coprodotto il suo nuovo lavoro sulla lunga distanza insieme a Tony Berg ed Ethan Gruska, già al lavoro con lei sul suo debutto full-length, mentre Mike Mogis si è occupato del mixing. Incredibile la lunghissima lista di ospiti che comprende, solo per citarne alcuni, Conor Oberst, Lucy Dacus, Julien Baker, Jenny Lee Lindberg delle Warpaint e Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs.
Il disco, che è stato rilasciato con un giorno di anticipo per spingere i fan a donare per associazioni contro il razzismo, nel corso dei suoi quaranta minuti, segna alcune interessanti modifiche nelle traiettorie a cui ci aveva abituato la bionda Phoebe.
“Garden Song”, per esempio, ci regala una delle numerose perle presenti su questo sophomore: non possiamo fare a meno di godere del grande senso di intimità del pezzo e della voce così toccante della californiana, mentre gentili arpeggi creano ottime melodie accompagnate da una base costruita sulle tastiere. Un pezzo riflessivo e coraggioso che funziona molto bene.
Il singolo “Kyoto” fa probabilmente storia a sè: l’unico brano dal ritmo elevato del disco (ottime le percussioni di Marshall Vore), ma non per questo meno emozionante. Anche in questo caso veniamo contagiati positivamente dalla musica della Bridgers, con quei fantastici fiati, cortesia di Nathaniel Walcott dei Bright Eyes, che aggiungono un tocco folk-pop alla canzone (sebbene i duri argomenti toccati come la crisi del quarto di vita).
“Chinese Satellite”, invece, esplora melodie più pesanti, ma non meno eleganti con un mix di percussioni, violino e piano che sa descrivere perfettamente il suo senso di ansia, ma allo stesso tempo dà profondità al brano.
Synth, percussioni e archi caratterizzano poi la successiva “Moon Song”, altrettanto intensa a livello emotivo: puo’ sembrare semplice a un primo ascolto, ma le sensazioni che lascia sono di quelle che rimangono sotto pelle a lungo.
E ancora fino alla fine si rimane su livelli qualitativi assai elevati anche con la lunghissima “I Know The End”, che inizialmente naviga su territori folk-rock con una delicatezza vocale che crea melodie deliziose e poi sa trasformarsi in un pezzo ricco e orchestrale, andando in seguito a deviare verso impreviste influenze psichedeliche con grida, sia umane che “strumentali”, quasi liberatorie che disegnano una sensazione di confusione che rappresenta perfettamente il tema della canzone (una persona giovane che cerca di mantenere la sua rotta in questo pazzo mondo).
La lista dei brani assai validi su “Punisher” è davvero lunga, non mancano le novità come le emozioni: nonostante la malinconia che pervade spesso il disco, Phoebe qui ci mostra tutta la sua umanità e il calore che sa emanare attraverso il suo sophomore è veramente tanto e fa bene alle orecchie e all’anima.
Credit Foto: Olof Grind