Facile salire adesso sul carro dei vincitori. Facile osannare questi ragazzi stanziati in zona Hull/Leeds e definirli “nuovi eroi shoegaze“. Facilissimo. Poi c’è chi sul carro ci stava già da un pezzo, come noi di IFB, che abbiamo iniziato a parlarvi di loro già dai primi mesi del 2018: il talento c’era già ed era visibile tanto quanto innegabile. Ecco perchè non ci stupiamo di tutte le lodi che i ragazzi stanno ricevendo, più che meritate, ma nello stesso ci “vantiamo” noi un po’, perchè ci avevamo visto giusto, stendendo un tappeto rosso per i bdrmm ancora in tempi non sospetti.
Ascoltando questo magnifico esordio ci sembra davvero di ritrovare quelle magnifiche sensazioni che abbiamo sperimentato assaporando il primo disco dei Ride. Non parlo tanto nei suoni, che a tratti si possono accostare ma in realtà sanno anche distanziarsi a dovere, quanto proprio in quello smottamento emotivo che ci cattura fin da subito. Le onde della copertina dell’ esordio dei Ride, quelle che battevano sul nostro cuore e ci scivolavano nel profondo, sono anche qui, tra i solchi di un album da pelle d’oca, vulnerabile, malinconico e dannatamente coinvolgente.
I temi del disco sono di quelli pesanti e brutali (abusi e dissoluzioni mentali che ne conseguono) e la musica che accompagna il viaggio (catartico, ovviamente) in fondo alla notte non può non risentirne. Il basso pulsante di “Momo” e quella batteria secca sono il primo segnale che non solo di shoegaze andremo a parlare, ma c’è anche la scuola post punk, quella che vede i magnifici Chameleons come linea guida, così come i Cure, altro cardine sonoro conosciuto piuttosto bene. “Momo” è una strumentale severa, rigida eppure sa diventare anche così ariosa e calda, mentre il climx ascendente sonico ci porta sempre più in alto. Introduzione magistrale per il resto del disco, una porta d’ingresso che dipana chiaramente quei tempi e quei modi che il quintetto andrà ad impartire. Oscurità e lirismo. “Push / Pull” è li a ribadirlo. Incanto purissimo.
“A Reason To Celebrate” è quanto di più vicino ai Ride possiate avere, anzi, lasciate che ve lo dica, meglio di quanto gli dei di Oxford abbiano fatto nei loro ultimi due dischi. “Gush” e “Happy” lavorano magistralmente nella ritmica: basso e batteria sono favolosi, ma quello che fa Joe Vickers alla chitarra è magistrale. Una sensazione di oscurità ci avvolge, ma non è un buio che ci spaventa, è quasi accogliente e i nostri occhi si abituando presto a sensazioni tattili inebrianti, che trovano magie chitarristiche quasi alla Johnny Marr tanto quanto benzina post-punk mai così efficace. “Happy” ha queste chitarre che sembrano rincorrersi, prima di aprirsi a un giro travolgente, non poteva che essere singolo un simile splendore. Dopo la buia euforia arriva però il momento più liquido di “(The Silence)” e il fantasma dei Cure più grevi di “(Un)Happy” con questo organetto spettrale. E’ il momento dei toni bassi, del guardarsi dentro. Della solitudine. Della difficile meditazione personale.
“If…” è capace di evocare le esplosioni soniche dei migliori Mogwai, mentre “Is That What You Wanted To Hear?” è come un mantra circolare e avvolgente che viene disturbato da improvvise impennate soniche: un vento impetuoso che va disturbare una ieratica circolarità . Il disco si chiude con “Forget The Credits”. Siamo agli antipodi rispetto a “Momo”: il percorso compiuto ha portato serenità e un distacco quasi paradisiaco rispetto a tutto quanto è stato messo in campo. Le onde si sono placate e ci lasciano in mezzo al mare, o forse addirittura sospesi, in un limbo suggestivo e surreale in cui assaporare finalmente la quiete. L’incanto ci avvolge. Completamente.
A tutt’oggi uno dei dischi dell’anno. Stop.