Jessy Lanza ha l’animo della musicista globe trotter. Canadese di nascita, americana d’adozione, ha attirato l’attenzione di chi cerca qualcosa di diverso dalle solite sette note. La chiamavano (qualcuno lo fa ancora) “outsider popstar” e tale resta anche nei trentotto agili minuti di questo album, il terzo, realizzato e prodotto con Jeremy Greenspan dei Junior Boys. Collaborazione a distanza questa volta: Greenspan rimasto a Hamilton (Ontario), Lanza approdata a New York prima e poi a San Francisco.
Cambi di residenza e scenario che hanno inevitabilmente influenzato lo stile della DJ, producer e musicista che crea un disco di grande personalità fondendo elementi di funk, footwork e pop elettronico, giocando con gli effetti vocali e facendo ampio uso di sintetizzatori modulari e semi modulari come il Mother 32, il Dfam, il Moog Sirin.
Un festival del suono analogico decisamente accattivante sia nei suoi momenti più estroversi (“Lick in Heaven” omaggio mascherato a “Seventh Heaven” di Gwen Guthrie) che in quelli più riflessivi (“Badly”) o sperimentali (“Baby Love”). “Alexander” era inizialmente una cover di “A Broken Heart Can Mend” di Alexander O’Neal e di quel brano conserva l’orecchiabilità estrema, che in realtà non viene mai meno e raggiunge il massimo livello in “Face” e “Ice Creamy”.
Non è mai prevedibile “All The Time”, la costruzione di ogni canzone varia un secondo dopo l’altro catturando l’ascoltatore con mille suoni diversi, frammentati e mai lineari anche quando avrebbero tranquillamente potuto esserlo come in “Over and Over” o “Like Fire” (ispirata da “In My Feelings” di Drake). Jessy Lanza conferma di essere “techno angel”, “outsider popstar” e molto di più.