Un paio di anni fa avevo parlato, sempre sulle pagine di IFB, dell’esordio dei canadesi Dizzy. Il titolo dell’album mi era sembrato tutto un programma, ascoltando il disco: “Baby Teeth”, si, denti da latte. Non mi sembravano “mordere a dovere” l’occasione i ragazzi e il loro approccio synth-pop disincantato era di quelli piacevoli, ma incapace di lasciare una traccia profondas, proprio come i primi dentini, destinati a perdersi più o meno presto, senza aver dato prova di grande tenuta.
Con i singoli anticipatori di questo “The Sun and Her Scorch”, però, le cose mi sono sembrate fin da subito diverse e dopo il ripetuto ascolto dell’album nella sua interezza non posso che fare i complimenti al quartetto di Oshawa.
La penna di Katie Munshaw lavora con franchezza e onestà nell’approfondire quelle sensazioni personali con cui spesso ci troviamo a che fare, quelle emozioni inconfessabili e spiazzanti che ti lasciano deluso e incazzato, mentre la bocca sfoggia sorrisi agrodolci di circostanza. Dolori e meditazioni del cuore, potremmo dire, che si sviluppano su pensieri oscuri e carichi di brutti presagi come la morte, la vulnerabilità o la solitudine. La band però, musicalmente, non si lascia travolgere da questa emotività , ma anzi, trova un suo equilibrio, in cui l’intensità a intermittenza dell’esordio emerge ora in modo più importante. Le canzoni assumono tono, spessore, melodie più incisive. Siamo sempre nel mondo pop del quartetto, ma il morbido synth stavolta ha una marcia in più e un peso specifico di tutto rispetto. I Dizzy sanno essere decisamente accattivanti, senza rinunciare, quando serve, al groove (in alcuni momenti ci vengono in mente i vecchi Savoir Adore) così come mostrando una raffinatezza, un credibile candore e una profondità inimmaginabile ai tempi dell’esordio.
Applausi a scena aperta alla dolcezza incalzante di “Good and Right” e a quella che, al momento è la canzone più ambiziosa dei ragazzi, ovvero “Ten”, ballata (dal testo formativo, potremmo definirlo così) al piano che va in crescendo, con la ritmica che si fa quasi marziale e i suoni di accompagnamento che ci portano in un mondo sognante, che però si fa quasi minaccioso e straniante intorno a noi: una situazione che potrebbe appartenere a Vanessa Carlton più che ai Dizzy, che invece non sfigurano affatto.
I ragazzi sono cresciuti e in due anni il salto di qualità è assoluto e lampante. Bravissimi!