Il nome degli Psychedelic Furs è indubbiamente legato agli anni ottanta, ma lungi dall’essere associati al filone più commerciale del decennio (rischio altamente corso dopo il boom di un singolo irresistibile come “Heaven”), sono stati in grado di mantenere una grande credibilità artistica, smerciandosi dal fenomeno pop e virando con il tempo verso composizioni più sofisticate, in cui venivano mescolate egregiamente istanze rock, post punk e new wave, creando così un substrato musicale assolutamente personale e riconoscibile.
Gran merito di questi esiti si devono dare al leader Richard Butler, la cui vocalità e personalità è stata capace di emergere, finanche a svettare in più occasioni al cospetto di epigoni da one hit wonder, senza dimenticare l’apporto di validi musicisti, a partire dal fratello Tim, il cui strumento principe è da sempre il basso.
Arenata la loro esperienza discografica nel 1991 con il valido ma discontinuo “World Outside”, la band cadde in un lungo oblio, riemergendo gradualmente specie nell’ultimo decennio, grazie ad efficaci riproposizioni di alcuni loro brani, disseminati nei vari album, in colonne sonore di film, per non dire dell’inserimento dell’evocativa ballata “The Ghost In You” nella fortunata saga di “Stranger Things”, assurta subito a serie cult.
Insomma, tutti gli ingredienti per una retrospettiva seria, per un recupero di questo gruppo, col senno di poi assai rilevante (basta vedere i tanti epigoni che a loro si riconducono, molti dei quali appartenenti alla neo ondata post punk) c’erano davvero tutti.
Corroborati da una serie di tour iniziati sin dal nuovo millennio, in cui in modo equo venivano pescati i brani di tutto il loro percorso, senza tralasciare i passaggi più oscuri, anche i fratelli Butler, coadiuvati attualmente dal chitarrista Rich Good, dalla tastierista e corista Amanda Kramer, dal potente batterista e percussionista Paul Garisto e dal fondamentale sax di Mars Williams, hanno sentito l’esigenza di rimettersi in gioco e di tornare in pista con un nuovo album di inediti, a distanza quindi di ben 29 anni dall’ultimo lavoro.
“Made of Rain”, titolo che più inglese non si può, è un felice rientro, questo lo possiamo accennare prima ancora di addentrarsi tra le pieghe del disco, e lo è principalmente per la freschezza e l’efficacia delle canzoni, che veramente non temono di confrontarsi sullo stesso campo dei loro figliocci emersi nell’ultimo lustro.
Il territorio è quello del rock, più che del pop di matrice eighties, a partire dal brano apripista “The Boy That Invented Rock & Roll” (già presentata durante i più recenti live), teso e ficcante, caratterizzato da un’ironia un po’ cruda, e dalla veemente tirata di “Don’t Believe”, singolo che richiama un po’ i colleghi/rivali Cure.
E’ un uno/due che spiazza per la potenza sonora, e che dimostra che i Nostri hanno ancora molto da dire. Detto ciò, e dato a Cesare quel che è di Cesare, a mio avviso gli episodi migliori dell’album sono quelli in cui è preminente una componente vagamente folk, come nel caso della più morbida “You’ll Be Mine” e della melodica “Wrong Train”, dai toni epici, preludio alla prima vera ballata in cui ci si imbatte lungo il cammino: “This’ll Never Be Like Love”. Protagonisti nel finale un (seppur breve) assolo di chitarra e un’elegantissimo intervento di Williams al sassofono.
La successiva “Ash Wednesday” appartiene alla categoria dei brani più riflessivi della raccolta, musicalmente piuttosto elaborati e in cui si sente il tocco di Tim Martin in regia, impegnato al mix.
Non tutto l’album però si posiziona su elevati standard qualitativi, a volte si ha l’impressione che alcune tracce potessero essere arrangiate meglio (un esempio su tutti la caotica “Come All Ye Faithful”, oppure una “Hide the Medicine” che pare stucchevole e ridondante), ed esiste uno scarto tra i pezzi dove è calcata la mano in fase di produzione (affidata a Richard Fortus) e quelli dove invece le musiche rallentano e spicca una vena malinconica adattissima alle corde di Butler (penso all’accorata “Tiny Hands”, all’intensa “No-One” o alla gemma incastonata in “Stars”, che chiude il disco).
Sottolineata quella che a mio avviso è una non del tutto riuscita coesione dell’album, ciò che vado volentieri a rimarcare è il ritrovato stato di forma del gruppo, e di Richard Butler in particolare.
Gli Psychedelic Furs non hanno bisogno di dimostrare niente a nessuno e dopo quasi trent’anni di silenzio discografico (nel mezzo interrotto solo dal progetto Love Split Love e da un brillante album solista del cantante) hanno sfornato un lavoro godibile e a tratti parecchio ispirato, come se il tempo si fosse fermato.
Credit Foto: Matthew Reeve