L’artista statunitense Julianna Barwick, di stanza a Brooklyn dopo i primi anni trascorsi tra Louisiana, dove è nata, e Missouri, con il nuovo “Healing Is A Miracle” era attesa a confermare quanto di buono mostrato sinora.
Il precedente “Will”, infatti, pubblicato quattro anni fa, aveva contribuito enormemente a diffondere il suo nome, forte di una coesione al suo interno che emergeva chiara in mezzo a tanta sperimentazione.
Già , con l’esperienza ormai acquisita sul campo, in quel disco seppe trovare il perfetto equilibrio tra forma canzone (pur sempre eterea e sfuggente) e istanze primordiali, all’insegna di una curiosità che la portava a codificare le proprie intuizioni lasciando libero il suo estro compositivo. Vi era arrivata dopo i primi esperimenti autoprodotti a inizio degli anni dieci, nei quali si divertiva a “giocare” con la propria voce, innescandola mediante loop e artifici elettronici.
La Barwick in ogni caso può vantare un solido background, costruito oltretutto (anche) fra le mura di casa, visto che i suoi inizi come cantante risalgono a quando, poco più che bambina, accompagnava il padre pastore nel coro della chiesa. E questa tendenza e un certo imprinting devono esserle rimasti dentro, tanto da voler ricreare attraverso questi ripetitivi loop proprio l’effetto corale.
Da una parte, ma questo è solo un parere soggettivo, può venire penalizzata la sua voce (a dire il vero notevole e in grado di spaziare abilmente tra i vari registri), ma dall’altra è indubbio che, nel mettersi all’ascolto delle sue canzoni, si rimanga con estrema facilità colpiti dalle atmosfere rese da questa particolare tecnica.
Ecco quindi che il mezzo espressivo principale finisce per essere avvolgente e intrigante insieme: il cantato sa cullarti dolcemente, sembra proteggerti ma potrebbe invero anche portare messaggi non sempre edificanti.
Non è il caso però degli otto nuovi brani, tutti al più sereni e rassicuranti, che compongono questo “Healing Is A Miracle”, il cui titolo – non si sa quanto volutamente – finisce per essere paradigmatico, con la musica che a seconda del valore che le riconosciamo e di come ne usufruiamo, può guarire le ferite tanto quanto le medicine. Intendiamoci, sarebbe troppo presuntuoso un assunto simile, se definito aprioristicamente, e non credo di sbagliarmi nel sostenere che quelle della Barwick siano in fondo semplici canzoni, ma che gli effetti possano essere benefici, quello non temo di affermarlo!
Sin dal brano introduttivo, dai toni vagamente spirituali (che, a parte l’accostamento immediato con Enya, me la fa rimandare all’intensa Julia Holter e al suo ultimo lavoro “Aviary”), Julianna mostra di essere cresciuta e di voler andare oltre gli esiti ottenuti in precedenza. Prova ne sono le seguenti due tracce in scaletta: la struggente “Oh, Memory”, impreziosita dall’arpa di Mary Lattimore e, soprattutto, quella che intitola l’intero album, con le sue celestiali tonalità ambient e i dolci riverberi che ovattano l’atmosfera.
Gli episodi citati fanno da preludio al pezzo forte del disco, ciò che ne contiene in essere tutti i cromosomi e che ci irradia di scintille accecanti. “In Light”, che vede ospite Jonsi, è archetipo convincente, la cartina di tornasole cui appellarci per definire il debordante talento dell’autrice, la quale riesce a sposare nel migliore dei modi il suo principale strumento (la voce) con quella del quotato leader dei Sigur Ros, sorta di nume tutelare oltre che credibile pietra di paragone, vista la peculiarità vocale di quest’ultimo.
“Safe” è altrettanto vicina allo stile della band islandese ma dalla seconda parte in poi diventa “100% Barwick” grazie al caratteristico utilizzo della loop station che ne amplifica il volteggiare della voce. “Flowers”, la canzone più breve del disco, superando di poco i due minuti, è quella che invece maggiormente si staglia dalla scaletta, e i cui inserti elettronici e un arrangiamento più corposo la rendono adattissima per qualche remix, tali da farla planare nei club hall.
“Wishing Well” è una sorta di strumentale, in cui solo in lontananza si sentono dei dolcissimi sussurri, mentre la chiusura è affidata a “Nod”, incentrata su una serie di vocalizzi ripetuti, prima dell’ingresso del pianoforte e di tastiere simil orientali che conferiscono ritmo e colore al tutto (e in cui si avverte l’intervento in fase di produzione di Nosaj Thing, all’opera anche in campo hip hop).
“Healing Is A Miracle” lascia indubbiamente una traccia al suo passaggio, come un bagliore di luce che sa essere accecante o una folata di vento a rinfrescare le calure odierne; è soprattutto la fotografia fedele di un’artista a tutto tondo che promette di stupirci ancora lungo il suo cammino.