Quest’anno alcuni ex leader di indie rock band made in UK hanno pubblicato i loro primi lavori da solisti. Si parla, ad esempio, di James Righton (ex Klaxons) e di Orlando Weeks (ex Maccabees), che hanno tirato fuori due album rispettabili e dei lati artistici inediti, rivelando una natura diversa da quella che avevano nelle rispettive band. Ma non sono i soli ad aver avviato una carriera in solitaria: ha avuto la loro stessa idea anche Matthew Murphy, attuale cantante del trio inglese The Wombats.
Con il nome d’arte Love Fame Tragedy, che prende ispirazione da una mostra di Pablo Picasso, Matt ha pubblicato l’album “Wherever I Go, I Want To Leave”, nato dopo la pubblicazione dei due EP “I Don’t Want to Play the Victim, But I’m Really Good at It” e “Five Songs to Briefly Fill the Void”, che contengono nove dei diciassette brani totali. Il disco è costellato di numerose collaborazioni di spessore, si parla di musicisti come Joey Santiago dei Pixies, Mark Stoermer dei The Killers e Gus Unger-Hamilton degli Alt-J, ma saranno state sufficienti alla buona riuscita di questo LP?
I Wombats non sono famosi per le composizioni e le liriche estremamente complesse, ma ci si aspettava quel “qualcosa in più” da un artista che, teoricamente, ci sta mostrando chi è davvero senza la sua band. I brani sono orecchiabili ma piuttosto banali, sanno di già sentito anche se c’è da ammettere che Matthew ha messo molto della sua storia personale nei testi, soprattutto di un periodo in cui si era perso tra gli eccessi di una vita sfrenata. Ne fa il tema centrale di “My Cheating Heart”, in riferimento allo sbandamento avuto in seguito al trasferimento da Liverpool a Los Angeles, e di “Brand New Brain” che assieme a “Backflip” e all’intermezzo acustico “The Sea Is Deep and the World Is Wide” rappresentano i brani migliori dell’album. Non mancano tracce catchy, tra cui “5150”, il cui titolo viene dal codice utilizzato in California per indicare soggetti psicologicamente instabili che possono rappresentare un pericolo per sè stessi e per gli altri, ma nemmeno riferimenti all’amore carnale, come in “Body Parts”, o a sua moglie in “Please Don’t Murder Me (Pt. 2)”, ma tutto ciò non basta.
Non si sta parlando di un album inascoltabile, è ben confezionato e sicuramente vivace e orecchiabile, però non c’è nulla che ti faccia aguzzare le orecchie e porre particolare attenzione, dentro c’è meno sostanza di quello che ci si augurava, con brani come “B Team” sulla poco originale questione dei media e della loro capacità di farci vedere solo un finto lato perfetto della vita degli altri o “Sharks”, copia della copia di tante canzoni pop sulla piazza.
Con “Love, Fame, Tragedy” Matthew Murphy avrebbe sicuramente potuto stupirci tra effetti speciali e grandi featuring, ma non ci è riuscito, almeno per ora.
Credit Foto: Eva Pentel