I Boris non sembrano conoscere vie di mezzo: o ci accarezzano con suoni morbidi e levigati, o ci devastano con la potenza di un bulldozer dal passo lento ma inesorabile. Pochi mesi fa, nell’esprimere un giudizio personale sull’album “LφVE & EVφL”, decisi di aprire la mia recensione esattamente con questa considerazione. Ora, in occasione della pubblicazione lampo esclusivamente su Bandcamp del nuovo full length intitolato “NO”, la recupero testualmente per una piccola rettifica. Il trio giapponese, infatti, sa come correre veloce quando i toni si appesantiscono.
La ventiseiesima fatica in studio di Takeshi, Wata e Atsuo, più che far affidamento sulle consuete atmosfere pachidermiche del doom (che pure non mancano), getta le fondamenta del suo essere heavy nel terreno turbolento dell’hardcore punk più brutale, fulminante e rapido. Il lavoro, registrato in tempi record e con il preziosissimo supporto dell’ingegnere del suono Koichi Hara, è stato presentato dai Boris come una chiamata alle armi contro ogni forma di oppressione.
Una dichiarazione di guerra tradotta in un linguaggio musicale violento, crudo e privo di fronzoli, in grado di tramortire sin dalle primissime battute. Ad aprire queste danze infernali è la strumentale “Genesis”; un epico pantano sludge che, con pigrizia e indolenza, ci trascina tra le fiamme hardcore/thrash di “Anti-Gone” e “Non Blood Lore”. Ancora più devastanti – anche se con forme e velocità nettamente diverse ““ sono “Temple Of Hatred” e “Zerkalo”: la prima è un fragorosissimo incrocio tra crust punk e noise; la seconda è una raggelante marcia funebre in chiave doom piena zeppa di feedback e urla terrificanti.
Le chitarre abrasive ma eteree di “HxCxHxC -Perforation Line-” sembrano confondersi in oceani di delay, quasi trasformandosi nel punto di congiunzione tra shoegaze e hardcore. Decisamente meno evanescenti sono i riff di “Kikinoue”, “Lust” e “Fundamental Error”: c’è da farsi sanguinare le orecchie! I cangianti sei minuti e quaranta di “Loveless” rappresentano forse il momento clou dell’intero disco: qui c’è tutta la forza e la fantasia di “NO”, un atto di amore nei confronti della musica pesante intesa nella sua essenza più genuina, antica e naturale.
Al termine di un simile massacro sonoro la delicatezza della conclusiva “Interlude”, interpretata con un filo di voce dalla chitarrista Wata, ha un che di rincuorante: una carezza per guarire le ferite. Grazie infinite, ma noi siamo dei sadici: preferiamo prenderci delle sane legnate sulle orecchie. E qui ce ne sono a non finire.