Phil Elverum (all’anagrafe Elvrum, senza una “e”) è uno dei cantautori più rilevanti del primo decennio del 2000, quello in cui l’importanza della band è iniziata a venire meno per lasciar spazio alla creatività individuale, agevolata dai programmi per la manipolazione dei suoni. E questo è valido non tanto per la musica elettronica, da sempre legata all’evoluzione tecnica delle sue strumentazioni, quanto per il resto dell’universo rock. Gli spiriti dannati che imbracciavano ““ per necessità ““ una chitarra sguaiata, hanno regredito a spauriti nerd da cameretta, dediti a sculture sonore cesellate, sovraincise, riverberate, costruite nota per nota con pazienza di frate certosino.
Con i suoi Microphones, Elverum ha dato alle stampe almeno due capolavori dell’indie-folk di inizio millennio, segnatamente “The Glow Pt. 2” (2001) e “Mount Eerie” (2003); e assorbito come nome il titolo di quest’ultimo lavoro, con il progetto Mount Eerie ha perfezionato la sua elegia dimessa, smossa da distorsioni sparse e accarezzata da note garbate, raggiungendo il culmine con “A Crow Looked at Me” (2017), uscito all’indomani della morte per cancro di sua moglie, Geneviève Castrèe (35 anni), che gli ha lasciato una bimba di pochi mesi. Chi scrive ha una figlia della stessa età , e il solo riflesso ad un tale evento fa rigettare sgomento.
Ripreso l’antico moniker, “Microphones in 2020” è un lungo flusso di coscienza che cerca di esorcizzare questo crocevia e tutta la propria vita, in un percorso a ritroso scandito da singoli fotogrammi, ricordi in filigrana. Un video realizzato dallo stesso autore è inteso come corollario visivo all’opera.
Pur nella sua semplicità , la musica fragile di Elverum è talmente particolareggiata ed elaborata da rendere necessario l’ascolto in cuffia. Il ricamo costruito dalle sue pennellate richiama un padre del folk primitivo come John Fahey: lo strimpellio che funge da struttura al brano (uno solo, di 45 minuti) è un vortice che risucchia dentro un paesaggio autunnale.
Dopo sette minuti inizia la lenta recita, un’autobiografia terapeutica.
Altri quattro minuti e una prima elettrificazione scuote le acque.
Al tredicesimo minuti entrano le percussioni, ed ogni volta che il brano pare distendersi si ripiega invece su sè stesso, ma conserva memoria delle increspature precedenti.
Così, quando dopo 16 minuti le distorsioni si fanno più ripetute, e quando dopo 21 un nugolo di droni piove dall’alto, lo scenario è il medesimo, ma ad essere cambiato è l’umore. L’accordo in perfetto sincrono tra liriche e palcoscenico sonoro ha del sinfonico.
La parte centrale è il climax, e rasenta il rumorismo.
Poi seguono un nuovo momento di calma, una ninna-nanna bisbigliata, e un’apoteosi di suoni angelici.
E’ passata mezz’ora.
Negli ultimi quindici minuti si riparte dall’inizio e ci si trascina ondeggiando intorno allo stesso canovaccio. Si sente forte l’ascendente dei Red House Painters e in generale dello slowcore americano (Codeine, Low), ma Elverum ormai ha coniato un genere intimista e maliziosamente progressivo che non ha niente da invidiare ai suoi illustri predecessori. Forse troppo ambizioso, probabilmente monotono, ma senz’altro emozionante, quest’album dei Microphones è uno dei migliori lavori usciti nel 2020 ed è suscettibile di creare sentimenti molto polarizzati nel pubblico. Ma crediamo di ritenere con una certa sicurezza che di brutta musica qui ce ne sia poca.