Ma voi davvero credevate che una semplice pandemia fosse in grado di fermare i Deep Purple? Nulla può mandare all’aria i piani della band britannica, appena tornata alla ribalta con il nuovo album “Whoosh!”. Il terzo lavoro di fila prodotto dall’immarcescibile Bob Ezrin ““ un musicista con la M maiuscola, già  al fianco di Alice Cooper e dei Pink Floyd di “The Wall” ““ arriva esattamente mezzo secolo dopo “Deep Purple In Rock”, uno dei più grandi capolavori nella storia dell’hard rock.

Un anniversario importante che Ian Gillan e soci celebrano con dodici tracce di fresca composizione e il rifacimento di un antichissimo strumentale, risalente addirittura ai tempi del debutto datato 1968 (“And The Address”). A cosa farà  riferimento l’onomatopea del titolo? Io un’idea me la sono fatta: è il suono delle folate di vento che, al termine di molteplici ascolti, hanno spazzato via dalla mia testa questi cinquanta minuti di hard rock innocuo, poco ispirato e a tratti persino stantio.

L’album, da un punto di vista prettamente formale, ha in sè e per sè davvero pochi difetti. La qualità  delle registrazioni è stellare, per non parlare poi delle performance strumentali; in grande spolvero il tastierista Don Airey, capace di rubare la scena a un gigante della sei corde come Steve Morse. Peccato solo per la voce sempre più nasale di Gillan, che però ha settantacinque anni e fa ancora una discreta figura.

Gli arrangiamenti, essenziali ma efficacissimi, non appesantiscono per nulla i brani in lista, tanto brevi quanto liberi nelle strutture. Ai Deep Purple non piace scrivere a tavolino, ma lasciarsi trasportare dalla musica nel corso di torrenziali jam session. Questa volta però sembra che il quintetto abbia proceduto con il freno a mano tirato, senza quindi osare troppo.

Si va sul sicuro: tanto blues, qualche strizzatina d’occhio al funk (“Drop The Weapon”), riffoni trascinanti (“No Need To Shout”) e quel pizzico di misticismo che, in minima parte, ci riporta ai fasti di “Perfect Strangers” (“Man Alive”). L’unica vera sorpresa arriva da “Nothing At All”, una godibilissima e colta parentesi pop rock farcita di citazioni di Johann Sebastian Bach. Il sound eccessivamente limpido, che nel caso del pezzo appena citato funziona benissimo, affievolisce però la potenza di “The Long Way Round” e “Dancing In My Sleep”, le due canzoni forse più ruvide di “Whoosh!”.

è inutile anche dirvelo: il confronto con gli album realizzati negli anni ’70 è assolutamente impietoso. La cura Ezrin, che nei lavori precedenti ci aveva regalato qualche bella soddisfazione (“Uncommon Man”, “Time For Bedlam””…), questa volta non ha dato i risultati sperati. Andrà  meglio alla prossima occasione; i ragazzi sono giovani e avranno modo di rifarsi.

Credit Foto: Ben Wolf