All’indomani dell’incanto sghembo costituito da “Minus” torna la dolce e insieme irta stralunatezza di Daniel Blumberg, accompagnato da una consolidata compagine di musicisti che ne assecondano la tortuosa malinconia (Ute Kanngiesser al violoncello, Billy Steiger al violino, Tom Wheatley al contrabbasso, Jim White dietro le pelli più le trovate elettroniche allestite da Elvin Brandhi). Il fragile percorso nelle pieghe della pallida anima del musicista si inabissa con ancora più stoicità in crepuscoli armonici in costante (dis)equilbrio tra ossificazione lirico-sonora e slabbrate sperimentazioni. Blumberg è sempre più autarchico e alla fine uguale solo a se stesso, graffiando solo di sfuggita la superficie ectoplasmica dei vari Hollis, Walker e Wyatt (come evidenziato da tanti), lasciando impressioni fugaci di visioni artistiche altrui, proiettando in realtà enigmi musicali irrisolvibili e figli di un futuro che sfuma sulla soglia di un orizzonte brumoso. Daniel è accentratore di un flusso strumentale che adesso rinuncia all’espressività del piano, cibandosi di corde elegantemente strappate e architetture sempre sul punto di franare sul fondale scabro della psiche del Nostro, appena innaffiato dal prezioso melodismo soggiacente cotanti aspri scenari.
Sono composizioni che sembrano rinascere e rifulgere di una luce nuova ad ogni ascolto, mostrando ogni volta nuovi angoli da esplorare, potenzialmente espandibili e rivisitabili all’infinito. è musica che sa ripercorrere solchi dimenticati del di dentro con crudele onestà , dalla quale fioriscono ogni volta salvifici virgulti di innocenza e vulnerabilità , cantautorato totalizzante post-tutto che svela dubbi e rompe certezze, ma che poi alla fine risolve, cuce insieme e sigilla, ricomponendo insieme schegge poetiche di rarissima affilatezza.