Dopo una lunga attesa è finalmente arrivato quest’estate “Metal, Meat & Bone: The Songs Of Dyin’ Dog”, il tanto favoleggiato album di musica blues dei The Residents. Il misterioso collettivo statunitense, sulla scena ormai da quasi mezzo secolo, reinterpreta a modo suo il genere fino a trasformarlo in qualcosa di alieno, irriconoscibile alle orecchie di noi comuni mortali. C’era da aspettarselo, considerando il fatto che stiamo parlando di una band che ha fatto della stravaganza una ragione di vita.
Il progetto è ambizioso e, probabilmente, un po’ troppo fantasioso per essere credibile. Stando alle parole dei nostri enigmatici avanguardisti, i brani qui inclusi non sono altro che liberissimi rifacimenti di vecchie demo realizzate da un oscuro bluesman della Louisiana chiamato Alvin “‘Dyin’ Dog’ Snow, un afroamericano albino e dagli occhi azzurri cresciuto in un orfanatrofio negli anni della Seconda guerra mondiale. La leggenda vuole che a scoprirne il talento musicale sia stato Roland Sheehan, per un certo periodo collaboratore dei The Residents.
Fu proprio lui, nel lontano 1974, ad aiutarlo a mettere su un gruppo ““ i Dyin’ Dog and the Mongrels ““ e a registrare una serie di canzoni scritte di suo pugno. Purtroppo le cose non andarono per il verso giusto: nel gennaio del 1976, devastato dal dolore per la morte della sua Miss Lillian, il povero Dyin’ Dog svanì nel nulla. Oggi a salvarlo dall’oblio ci pensano i The Residents, protagonisti di un’operazione che di interessante ha quasi esclusivamente la storia che vi ho appena raccontato.
è davvero esistito questo personaggio o si tratta semplicemente di un’originale boutade? Il quesito non rende più avvincente l’ascolto di questo “Metal, Meat & Bone: The Songs Of Dyin’ Dog” ““ un disco straordinariamente audace ma anche pesante, ripetitivo e cupo. Insopportabilmente cupo, oserei aggiungere: al suo interno vi troverete alcune delle nenie più lamentose e mortifere mai messe su nastro dall’uomo (“Hungry Hound”, “I Know”, “Mama Don’t Go””…).
Del blues non resta che un guscio fatto di dolore e mestizia. Le classiche dodici battute del genere vengono destrutturate e ricomposte in molteplici forme: si va dai toni industrial di “Bury My Bone” alle grottesche tinte noir di “Cold As A Corpse”, passando ancora per le sinistre dissonanze di “She Called Me Doggy” e le melodie fumose di “Cut To The Quick”, tutto sommato uno degli episodi meno angoscianti della raccolta.
Intendiamoci, cari amici di Indie For Bunnies: “Metal, Meat & Bone: The Songs Of Dyin’ Dog” non è un brutto lavoro. Tanta creatività da parte di un collettivo sulle scene praticamente dalla preistoria del rock ““ e di cui, ancora oggi, si conosce poco e niente ““ è assolutamente encomiabile. Il problema principale è tutto nella fatica che si fa nell’ascoltarlo dall’inizio alla fine: un tour de force di cervellotica tristezza. Album più deprimente del 2020 (ed è quanto dire).
P.S.: se volete prendere per vera la storia di “Metal, Meat & Bone: The Songs Of Dyin’ Dog”, godetevi le dieci demo originali inserite in coda. La voce catramosa e roca di Snow sembra quasi affondare nelle paludi di un blues non troppo tradizionale, a dirla tutta. Siamo dalle parti di Tom Waits ““ con le dovute distanze, naturalmente.