La parola Kompromat, si legge su Wikipedia, viene dal russo che significa”materiali compromettenti” ed è usato per indicare “un dossier contenente informazioni, documenti, o altri materiali riguardanti un uomo politico, o altro personaggio di rilevanza pubblica, il cui contenuto, se divulgato, è in grado di denigrarne la figura o metterla in cattiva luce”.
In realtà , non c’è alcun mistero nè materiale secretato in quanto con questo “KOMPROMAT” – scritto rigorosamente tutto in maiuscolo – la direzione intrapresa dal quintetto di Leeds formatosi nel lontano 2004, almeno dal punto di vista musicale, è bella che cristallina e ritrova le vecchie influenze tanto care alla band che spaziano tra i soliti Joy Division, ma anche Gang of Four, Television nonchè The Velvet Underground per passare, inevitabilmente e recentemente (aggiungerei) agli Interpol di “Antics” che escono fuori in maniera prepotente nel trittico “Patience Is A Virtue”, “A Man Of Conviction” e “New Geography” o ai White Lies come si ode nella seconda traccia “Desire is a mess” che fa il verso a quella “Bigger Than Us” dei ragazzi di Ealing.
Ma le intenzioni sono ben chiare, come dicevo, e il leitmotiv si avverte sin dalla traccia di apertura “A Steady Hand” con le sue inquietanti atmosfere supportati da altrettanti cupi synth dove traspare la produzione post-punk, new-wave e gothic-rock della band capeggiata dal frontman David Martin, che si completa con gli altri eccellenti membri come Alistair Bowis (basso), Guy Bannister (chitarre e sintetizzatori), Simon Fogal (batteria) e Ian Jarrold (chitarra).
La visione pessimistica delle nebbiose tinte dark del sound di questo quarto album si ripercuote anche nella narrativa con spunti, pare del tutto inaspettati a detta di Martin, che si immergono nel quotidiano ma anche a temi di stringente attualità come il populismo, la Brexit, Trump, Cambridge Analytica e annessi e connessi.
Con “Dig in” atterriamo sui territori di Joy Division memoria mentre con la radiofonica (si fa per dire) “PRISM”, la mia preferita, vengono alla luce i segni distintivi di un album che vede nella sezione ritmica il suo abat–jour, bassi corposi che girano a mille e batteria pulsante che avvolgono questo riconoscibile mood tetro che non sbaglia una singola nota, ben orchestrato e decisamente curato.
Si arriva alla conclusione con il loop sintetico della traccia di chiusura “Eyes To The Left” che vede il featuring di Anika dei Exploded View e con i sei minuti che precedono nella mordace e incalzante “The Truth” dove Martin sentenzia che “La verità è/Non mi vedrai mai più e anche se lo facessi non mi riconosceresti”.
Speriamo che ciò non accada perchè in quest’epoca dove prolificano band post-punk che si assomigliano tutte tra di loro, c’è bisogno ogni tanto di qualcuno come gli I LIKE TRAINS che, sebbene non portino una ventata di aria nuova, almeno regalano qualcosa di lodevole e appagante.