Dopo mesi passati forzatamente rinchiuso e prigioniero tra quattro mura c’è chi di casa non vuol più sentir parlare. Paul Armfield, elegante chansonnier con una vita a dir poco avventurosa alle spalle nato a Birmingham ma da anni residente nell’Isola di Wight, è l’eccezione che conferma la regola. Settimo album a suo nome e la conferma di una maturità cercata e raggiunta nota dopo nota.
“Domestic” è un lavoro da paziente artigiano della musica registrato durante “un lungo inverno, nella solitudine casalinga, isolato e al sicuro dalla pazzia del mondo esterno, tra Brexit e crisi dei migranti” come Armfield ha raccontato. Dieci brani riflessivi e raccolti dunque, con la voce dal timbro baritonale che accarezza e le corde della chitarra che accompagnano circondate dal cavaquinho di Giulio Cantore, dalla batteria di Johann Polzer e dal basso del produttore Max Braun.
Un alfabeto fatto di calma e dolcezza, di duetti delicati (“You”) un pizzico di romanticismo (“Heartache”) piccoli brividi (“January”, “Nowhere”, “Wrong”). Atmosfere che poco hanno in comune con la frenesia moderna e molto con l’osservare le cose in profondità , col raccontare storie dove l’ambiente conta quanto i protagonisti (“Fledging”, “Flagbearers”). Oltre a Tindersticks, Lambchop, Cat Stevens a cui Paul viene spesso paragonato potremmo citare un certo Robert Wyatt.
Se nell’album precedente (“Found” del 2015) venivano celebrate le vite degli altri, Armfield oggi torna a cantare la quotidianità fatta di piccoli cambiamenti e solide radici punk rock, che col tempo e la pratica sono maturate in un folk pastorale a tinte noir che chiede educatamente ma con decisione di essere ascoltato.