Forse qualcuno di voi non lo sa ma Ivan Jurić, l’attuale allenatore dell’Hellas Verona, è un grande appassionato del metal estremo in tutte le sue molteplici forme. Tra le sue band preferite, oltre a mostri sacri del death quali Carcass e Obituary, vi sono i britannici Napalm Death, pionieri del grindcore nelle cui fila hanno militato artisti di primissimo livello quali Mick Harris, Lee Dorrian, Justin Broadrick e Bill Steer. In un articolo dedicato al tecnico gialloblù scritto all’inizio di quest’anno, il simpaticissimo Vittorio Feltri li descrisse in questa maniera: “I Napalm Death sono come se vi chiudessero a tradimento in una scatola di lamiera e una dozzina di energumeni molto motivati ci picchiassero sopra con delle sedie”.
Un’immagine decisamente forte in grado di raffigurare la violenza sonora di un gruppo che, nonostante l’età avanzata dei componenti, continua a non andare troppo per il sottile quando si tratta di prendere a schiaffi in faccia l’ascoltatore. E il nuovo “Throes Of Joy In The Jaws Of Defeatism” ne è una brillante conferma, caratterizzato com’è da un sound quanto mai ruvido, aggressivo e potente. Dispiace però deludere il gioviale direttore di Libero: nella musica dei Napalm Death non vi sono solo ferocia e brutalità , ma anche ““ e soprattutto! ““ il desiderio di sperimentare, contaminare e sorprendere.
Nell’album quest’aspetto è particolarmente in luce: dopo una partenza micidiale all’insegna di hardcore (le devastanti “Fuck The Factoid” e “Backlash Just Because”), riff vorticosi e mitragliate di blast beat (“That Curse Of Being In Thrall”), i Napalm Death decidono di mettere in mostra in maniera chiara ed evidente le mai celate influenze post-punk (“Contagion” ha un bel ritornello che sembra rubato dai Killing Joke), noise rock e industrial.
Si passa così dall’indistinto sferragliare di “Joie De Ne Pas Vivre” ai toni diabolicamente lugubri di “Invigorating Clutch”; dai brandelli melodici di una “Amoral” quasi radio-friendly all’imponente grandiosità della sezione ritmica di una “A Bellyful Of Salt And Spleen” che pare essere stata registrata all’interno di un’enorme cattedrale vuota. La penna del bassista Shane Embury, unico superstite della formazione originale, funziona ancora alla perfezione. è però il vocalist Barney Greenway a rappresentare il punto forte dell’intero lavoro: per riuscire a far fronte a un fisiologico indebolimento del cantato in growl con interpretazioni sempre intense e ricche di sfumature bisogna essere dei veri professionisti.
Lui non solo è un maestro del suo genere, ma anche un uomo dal cuore d’oro. Ian Brown e Noel Gallagher, due vecchi tromboni che non producono qualcosa di decente da tempo immemore, piagnucolano perchè considerano le mascherine un insopportabile limite alle proprie libertà personali? Ecco il pensiero di Greenway sullo stesso argomento, ripreso letteralmente da un articolo pubblicato sull’ottima webzine TrueMetal: “Devo essere onesto, io sono a favore delle mascherine. è una cosa umana. Se è un peso anche solo proteggere parzialmente le persone che vi circondano, allora non ho idea di quale significato ci veda la gente. Solo perchè ti è stato chiesto di indossare una mascherina, è veramente come se ti mettessero in manette? Non capisco questa mentalità . Non ne capisco la logica. Penso anzi, in realtà , che sia una forma di rispetto per gli altri esseri umani, indossare la mascherina. Potrà non essere la fine del mondo, ma almeno penso alla sicurezza degli altri miei simili”. Scordatevi le truculente parole di Feltri: il grindcore e i Napalm Death sono un commovente esempio di civiltà , umanità e solidarietà . Nell’attesa di poterci ritrovare tutti insieme sotto a un palco, vicini vicini e pronti al massacro, consoliamoci con questo bel disco.