Tra tutti i modi con cui i musicisti hanno reagito all’impossibilità di fare concerti dal vivo negli ultimi mesi, quello di Fenne Lily è certamente uno dei più originali: sul suo account Instagram ha pubblicato una serie di lunghe chiacchierate con altri musicisti, registrate dalla sua vasca da bagno con il titolo di “Bath Time”. Per scrivere “BREACH”, il suo secondo album e il primo su Dead Oceans, Lily si era invece rifugiata a Berlino, da sola e sconnessa da ogni social media. Lo smartphone era servito solo a catturare appunti e demo chitarra e voce, tutto andato perso quando il telefono non si è più acceso al ritorno in Gran Bretagna.
Con una calma olimpica la ventitreenne di Bristol dice di averlo preso come un aiuto a individuare le parti migliori, quelle che le erano rimaste in testa e che ha poi inciso a Chicago, per la produzione di Brian Deck (Modest Mouse, Iron&Wine). La rabbia “” mediata da un sarcasmo molto britannico “” la riserva a una serie di ex, dall’intellettuale poser di “I, Nietzsche” al musicista fedifrago di “Birthday”. In ogni caso, sono canzoni scritte da “un luogo di riflessione e compassione, verso me stessa e le persone che mi hanno ferito e le persone che amo”, come ha raccontato a Indie for Bunnies.
“BREACH” segna un’evoluzione verso sonorità più ambiziose dell’esordio “On Hold”, che era chiaramente ancorato a coordinate indie folk. Le chitarre non sono più soltanto acustiche e delicate, ma esplodono in assoli ricchi di fuzz (“Alapathy”, “Berlin”), basso e batteria incalzano ruvidi in “Solipsism”. Convincono meno gli inserti di archi in “Birthday” che vorrebbero rifarsi ad atmosfere alla Angel Olsen ma non ne hanno la profondità . La voce è in primo piano e molto espressiva, ma un po’ piatta nelle dinamiche, sempre sussurrate. Lily si inserisce a pieno titolo in un gruppo sempre più folto di ventenni che recuperano sonorità nineties tra Pavement e Elliott Smith e le declinano al femminile (Phoebe Bridgers, Lucy Dacus, Snail Mail per citarne solo alcune).
Soltanto alcune tracce di “BREACH” riescono veramente a fare breccia e sono quelle dove gli arrangiamenti alzano il tiro e aggiungono movimento ai giri armonici e melodici di Lily che sono sempre eleganti ma alla lunga risultano ripetitivi. “Alapathy” si appoggia su un pattern ostinato di batteria e gioca su vuoti e pieni: una chitarra sporca in levare, sparse note di pianoforte, riff distorti improvvisi che entrano ed escono di scena come automi di un carosello. “Solipsism” parte rock, rallenta, inserisce un organo distorto e deflagra in un assolo di basso.
Gli altri momenti da ricordare sono quelli in cui i testi, sempre scanditi delicatamente, mandano brividi lungo la schiena: il periodo solitario in Germania raccontato nei tratti ambivalenti di “Berlin” (“Non è più difficile stare da soli, anche se ti svegli in un giorno che ignori”); il parallelismo tra la dipendenza dalle sigarette e quella da una persona in “Laundry and Jetlag”; soprattutto, la cronistoria in 4 minuti di una relazione in “I Used To Hate My Body But Now I Just Hate You”. è in questi versi taglienti e asciutti che Lily trova, più che nella musica, un’identità davvero personale.
Credit Press: Nicole Loucaides