Ed Harcourt ce la sta mettendo tutta per smarcarsi dai territori pop rock di inizi carriera, quando era (giustamente) considerato uno dei nomi da tenere d’occhio nel panorama britannico, con i suoi spunti cantautorali che però spesso assecondavano una vena più sperimentale.
Prova ne è questo nuovo lavoro che giunge a distanza di due anni da “Beyond the End” e che al suo pari è interamente strumentale. Una scelta, quella di continuare a battere questa strada, che se proprio non si può definire azzardata, vista la qualità intrinseca dell’opera, di certo mostra una dose di sano coraggio, in un mondo in cui tutti sentono la necessità di dire delle cose.
Ecco, è evidente che l’artista quarantatreenne preferisca a questo punto far parlare esclusivamente la sua musica, la quale assolve bene il compito di comunicarci qualcosa, anche di profondo.
Se il disco precedente verteva sostanzialmente sul suono affascinante ma monolitico del pianoforte, suo strumento d’elezione, in questo “Monochrome To Colour”, il buon Ed amplifica vertiginosamente il suo spettro musicale e compositivo, consegnandoci dodici mini suite che rappresentano altrettanti colori di una tavolozza assai ricca, adattissima a far veicolare varie sensazioni e a ridefinire mood e atmosfere.
Per quanto le dichiarazioni dello stesso autore in merito a queste canzoni inneggiassero all’ottimismo e a una nuova via più ariosa rispetto al crepuscolarismo di “Beyond the End”, c’è da ammettere che il Nostro è stato sincero a metà , in quanto, pur riscontrando una complessità musicale ragguardevole e una cura minuziosa per gli arrangiamenti che vanno a intercettare diverse suggestioni (passando dal miraggio della miglior musica classica a deviazioni new age, da inserti elettronici a botte di rock d’avanguardia), il risultato è quasi sempre quello di ricondurci a suoni grevi e maestosi, con un tasso di intensità (e talvolta di drammaticità ) assai elevato.
Come detto qualche riga più su, la qualità generale dei brani è decisamente buona, sia nei momenti più intimi (come “Her Blood Is Volcanic”, introdotto da un piano mesto e cullato poi da sublimi archi, e la struggente “So Here’s to You, Hally “), che in quelli più luminosi, vale a dire nei squarci di luce di “Childhood” (che ricorda i Sigur Ros più accessibili) in grado di cullarci soavemente o nei cenni onirici di “King Raman”, dove il cantato probabilmente ne avrebbe accresciuto il valore (ma la cosiddetta forma-canzone “strofa, bridge, ritornello” abbiamo capito non interessargli più).
E’ indubbiamente però nei brani più epici e strutturati che si raggiunge l’apogeo del disco a livello di intensità , come in “Drowning in Dreams”, corredato da un video spettacolare girato in Islanda, che diventa il manifesto più autentico dello status e del percorso di Ed Harcourt. Notevole anche la seconda traccia “Ascension” che tiene fede al titolo, e ci fa imbattere in un climax emozionale che va a braccetto con un suono avvolgente.
Non è facile entrare “a tavolino” fra i solchi di questo album, perchè ogni episodio ti toglie qualcosa e ti chiede uno sforzo empatico, ma poi ci si rende conto che in realtà è molto di più ciò che “Monochrome in Colour” è in grado di lasciarti nel cuore. Quindi, caro Ed, non possiamo che ringraziarti di averci regalato un altro pezzo del tuo cuore.
Credit Foto: Steve Gullick