C’era un tempo in cui si attendeva in maniera spasmodica, perlomeno per alcune uscite, la pubblicazione ufficiale, magari presentandosi di buon’ora davanti all’entrata del negozio di dischi di fiducia o addirittura allo scoccare della mezzanotte quando talvolta si organizzava in tal senso l’evento. Ora tra spoiler, blog, social ed ascolti “piratati” si rischia di perdere la bussola , ma c’è chi come me, forse un inguaribile romantico, attende comunque la data ufficiale e cerca di gustarsi l’ascolto senza far null’altro e sperando di non essere disturbato in ogni momento da qualche suono di telefono che squilla o notifica di nuova email.
Molti, dato il peso dell’artista in questione, lo loderanno a priori, altrettanti con pregiudizio opposto faranno lo stesso, parlandone male o con toni glaciali (giacchè non avranno il coraggio di demolirlo).
Sinceramente dopo il trionfo artistico di “Western Stars” e memore dei dischi tutt’altro che memorabili regalati dal nostro a partire dagli anni 2000, il timore che si trattasse di un album non dico assemblato per mero dovere contrattuale ma in ogni caso non particolarmente ispirato era forte. Consideriamo infatti che “Letter to you” arriva dopo solo un anno dal precedente “Western Stars” (sorprendente ed ispirato) e che rispetto ai gloriosi ’70 ed ’80, in cui ogni disco era ponderato in maniera quasi maniacale, scartando brani che avrebbero rappresentato per chiunque una miniera d’oro, Bruce ha pubblicato una gran quantità di nuovi album (dopo esser stato molto parco negli anni ’90) ed in taluni casi non proprio imprescindibili, se mi perdonate l’eufemismo.
Contro ogni mia aspettativa, Springsteen riesce a bissare l’ottimo risultato di “Western Stars” e finalmente lo fa con la E-Street Band, con una produzione degna di tal nome e con canzoni realmente all’altezza del suo blasone.
Una produzione che evita finalmente inutili rincorse “di tendenza” e che si configura in sonorità orgogliosamente classiche senza apparire stantie o datate, per un album costruito sull’asse pianoforte-organo hammond, il tutto ben controbilanciato dalle chitarre e dai suoni vividi di una batteria autenticamente poderosa , con accenni dell’amato sax ed infine la voce di uno splendido settantenne che canta, urla e declama con il cuore in mano.
Inutile ricordare che ben tre brani in scaletta sono composizioni che risalgono agli anni ’70, brani grondanti d’aurea ispirazione e conosciuti dagli appassionati fino ad oggi in altra veste (se pur mai ufficialmente pubblicati).
La dylaniana “Song to Orphans” circolava in versioni live e bootleg vari, così come “If i was the priest” , uno dei brani dei famosi “Hammond demos”, al cui ascolto il noto scopritore di talenti e produttore John Hammond saltò letteralmente sulla sedia e allo stesso modo “Janey needs a shooter”, tra l’altro ripresa in via ufficiale da Warren Zevon nel suo quarto album datato 1980. Solo la presenza di queste tre perle (non pubblicate nemmeno nel cofanetto di outtakes e b-sides “Tracks”) poteva garantire il livello qualitativo del nuovo album ma ciò che colpisce è sia la (nuova) interpretazione magnifica che ne viene data che l’accostamento riuscito al resto della nuova scaletta, scongiurando il pericolo che potessero apparire come un corpo avulso nell’economia dell’album.
Fortunatamente anche il resto della scaletta svela brani che ne testimoniano la ritrovata ispirazione, con una quasi pressochè assenza di filler (non convincono “Last Man Standing”e “Rainmaker”), anche se ovviamente il livello delle nuove composizioni non è quello dei brani composti nei seventies (altrimenti parleremmo di “capolavoro”).
Un album che si apre con “One minute you’re here” che pare in congiunzione con il precedente “Western Stars”, come a voler passare il testimone alla band ritrovata nelle registrazioni di “Letter to you”, registrazioni che trasudano un accorato feeling.
Non sfigurano, pur senza esaltare, i due singoli che hanno anticipato l’album ovvero “Letter to you” e “Ghosts”, giova citare “Burnin Train” e (maggiormente) “Power of Prayer” che infiammano anima e corpo e “House of a thousand Guitars”, gemma che si erige a nuovo classico springsteeniano se pur apparentemente estraneo ai suoi consueti canoni stilistici.
La chiusura, forse non a caso, è per l’acustica e speziata di aromi country “I’ll see you in my dreams”. Per comprendere il mood dell’album in questione è indicativo il fatto che lo stesso autore ricordi la visita all’ultimo membro ancor in vita della sua vecchia band Castiles prima che spirasse, fissando tale circostanza come una delle scintille per l’ispirazione di “Letter to you”.
Un album che molti hanno definito dal “sound classico che ogni fan di Springsteen attendeva” ; posso concordare che è un piacere ritrovare quel sound, ma infine è bene sottolineare che risulta scevro da produzioni glaciali che comprimevano ed opprimevano le canzoni e non si tratta più della brutta copia dei bei tempi che furono (ricordate molti episodi presenti ad esempio in “Magic”?).
“Letter to you”, non me ne vogliano i detrattori, è la conferma della caratura di Bruce, che a settant’anni suonati riflette e ci fa riflettere sulla condizione umana di chi è giunto alla soglia del proprio tramonto,con un album che forse rappresenta il climax del suo percorso introspettivo.
Photo Credit: Danny Clinch