Probabilmente il film più importante e, pur narrando vicende legate ai moti sessantottini e alla guerra in Vietnam, attuale di questo strano anno cinematografico.
Aaron Sorkin, già autore della sceneggiatura più maestosa dello scorso decennio (“The Social Network” di Fincher), scrive e dirige un ordigno cinematografico letteralmente perfetto, nei ritmi e nella messa in scena. I botta e risposta tipici dei film ambientati in una corte di giustizia americana vengono portati all’esasperazione ma, allo stesso tempo, alleggeriti dai continui, potenti flashback dei giorni degli scontri alla convention democratica di Chicago del 1968 (narrati peraltro, sotto forma di uno stand up a sua volta incastonato tra i vari piani narrativi, da un Sasha baron Cohen sublime). Il passato si specchia nel presente, l’ineluttabilità della repressione perpretata non soltanto attraverso le forze di polizia ma anche mediante un processo pilotato e un giudice stolido (un Frank Langella totale) guarda da vicino numerose “democrazie” moderne.
Ho nominato Langella e Baron Cohen, ma un oscarino lo meriterebbero anche Mark Rylance e Jeremy Strong. Per non parlare della sveltina da orgasmo di Michael Keaton.
Bravissimi anche tutti gli altri, tutti tutti.