Quante parole potremmo, meglio dovremmo, spendere sugli Whipping Boy? Molte, moltissime. Sarebbe doveroso dedicare una lunga dissertazione sul concetto di “potevano, erano li per…ma non è stato...”: con gli Whipping Boy si andrebbe a nozze. Ripensare alla band irlandese ormai è davvero sinonimo di chi era a un passo dall’affermazione e poi, per svariati motivi non ce l’ha fatta. Sono arrivati troppo presto per aprire quella stagione che poi Editors, Interpol e compagnia bella avrebbero portato avanti con successo? Si, sbrigativamente potremmo dire di si. Ecco, sto cascando nel tranello di perdermi nelle elucubrazioni sul perchè il quartetto di Dublino non sia ora celebrato a dovere e questo toglie spazio al disco in questione, il secondo della loro carriera, che oggi compie ben 25 anni. Ritorno sui miei passi.

Se “Submarine” (1992) risulta ancora grezzo, ma già  ricco di viscerante sentimento, nelle sue trame veicolate da Velvet Underground e My Bloody Valentine (due pilastri nella formazione sonora della band), ecco che la quadratura perfetta del cerchio arriva nel 1995 con la pubblicazione dei “Heartworm” che, pur non trovando il successo di pubblico (cosa che ovviamente alla Columbia non andò giù), divenne con il passare del tempo vero e proprio album di culto e pietra di paragone costante e fondamentale per chi si occupa di indie-rock e cerca magistrali e suggestivi epigoni dei Joy Division, in bilico tra new-wave e post-punk ricco di eleganza più che rigore.

Romanticismo decadente e oscuro, cuori spezzati (immortalati fin nella copertina, con questo azzurro quasi glaciale e cristallizzato) alla ricerca dell’amore che non ti fa pensare ad altro e ti rovina, dipendenze, malessere, instabilità , sguardi che vorrebbero essere fieri (spesso senza riuscirsi) e sensibilità  eccessive: la voce piena e calda di Ferghal McKee canta e declama tutto questo, mentre alle spalle la magia sonora sonora si fa tanto calda e avvolgente quanto ricca di oscuri, melodici e morbosi presagi. Un disco che si staglia come una faro nella notte, preso a spallate da grunge e britpop, ammaccato, dolorante, in ginocchio, ma mai domo e per questo capace di sopravvivere con tenacia e ardore per tutti questi anni, seppur nel ricordo di pochi eletti che ne condividono mood e visione catartica.

La band non perde le sue linee guida, ma sicuramente l’anima shoegaze viene stemperata nella ricerca di una perfezione formale ed elegante (arrangiamenti curatissimi) che abbraccia e fonde in modo sublime nostalgia, struggimento e malinconia a una velata epicità .

“Twinkle” è l’emblema del disco, la mappa dei sentimenti per addentrarsi nell’album. Grazia e potenza, dolore e moti d’orgoglio, e quel cuore in copertina, quel vetro rotto, che trova la sua colonna sonora nella drammatica e rabbiosa fragilità  di questo brano, in cui venti nervosi diventano presto una tempesta devastante. In un mondo perfetto “When We Were Young” sarebbe ancora al primo posto nella classifica dei singoli dopo 25 anni. Riflessione toccante ed empatica sul tempo passato, sostenuta da un giro di chitarra talmente puro e melodico da farci venire le vertigini. Siamo solo alla seconda canzone e le mani tremano.

“Tripped” ancora gioca sui contrasti forte/piano, mentre la dolente “The Honeymoon Is Over” è poesia dimessa e avvolgente, come se Nick Cave avesse deciso di fare un giro in Irlanda a dispensare perle. A metà  album arriva la magia, arriva quella canzone che ti lascia a bocca aperta. “We Don’t Need Nobody Else” è il contrario di quanto afferma. Sembra una dichiarazione d’indipendenza forte e consapevole, eppure è una nuova verbalizzazione di fragilità  disperata. Un lirismo drammatico, con queste chitarre in odor di shoegaze, che ronzano nel sottofondo. Pelle d’oca.

“Blinded” è, melodicamente parlando, uno degli apici del disco. Ottimo lavoro ritmico e un ritornello d’alta scuola. Guitar-pop fatto in modo divino, mentre “Personality” lavora magnificamente con grazia e arrangiamenti d’archi curati alla perfezione (la stessa cosa la ritroveremo anche in “Morning Rise”). “Users” è uno dei momenti più oscuri del disco con questa chitarra sonica e liquida, che diventa realmente rabbiosa, un grido di rabbia e graffi sonori che lasciano segni indelebili che bruciano in modo costante. Colm Hassett alla batteria guida la carica nella potente “Fiction” che, ancora, brucia del sacro fuoco che animava eroi come Bunnymen e Joy Division.

A 25 anni il fascino oscuro e magnetico di questo capolavoro rimane ancora immutato. Non riusciremo mai ad aggiustare quel vetro in copertina, ma lasciamo che sia da monito costante…non arriviamo a permettere che il nostro cuore soffra così tanto.

Pubblicazione: 1 novembre 1995
Studio: Windmill Lane Studios, Dublino, Irlanda
Lunghezza: 44:28
Label: Columbia

“Twinkle”
“When We Were Young”
“Tripped”
“The Honeymoon Is Over”
“We Don’t Need Nobody Else”
“Blinded”
“Personality”
“Users”
“Fiction”
“Morning Rise”
“A Natural” (hidden track)