Tratta dal libro di Walter Travis del 1983, questa splendida miniserie di Netflix racconta la storia di una geniale scacchista che negli anni ’60 abbatte avversari e pregiudizi senza soluzione di continuità (gli scacchi non sono un gioco da donne, figuriamoci a quei tempi). Attraverso la fantastica interpretazione di una magnetica e trendyssima Anya Taylor-Joy, seguiamo la vita di Beth Harmon sin dal tragico arrivo in un orfanotrofio, dove avrebbe imparato il gioco degli scacchi da un affettuoso tuttofare, sino alla conquista di numerosi titoli nazionali e internazionali. Passando ovviamente per la difficoltà tipica di un’orfana nello stabilire relazioni interpersonali e per la dipendenza da alcool e tranquillanti.
Forte di interpetazioni, scenografie e costumi sontuosi e coloriti, la serie opta per una narrazione molto tradizionale che, come capita spesso a fronte di un soggetto solido e di stampo classico, risulta una scelta vincente.
Detto questo, le cose che più mi hanno stupito di questa mini-serie e che secondo me sono i suoi punti forti sono due. Anzitutto la narrazione dell’ascesa sportiva di Beth che, di sfida in sfida, riesce a svelare il lato accattivante degli scacchi, un gioco di certo non spettacolare ma forte di un incredibile coinvolgimento della sfera psicologica. E poi l’empatia verso Beth che la scrittura e le interpretazioni riescono a instillare nello spettatore, che si affeziona a questa protagonista di pari passo ai suoi amici e rivali.
Molto belli anche i vari inserti musicali. Superbo il cast di contorno che va dal burbero Bill Camp (il bidello primo maestro della Harmon) all’impassibile Marcin Dorocinski (il campione russo e nemesi di Beth Vasily Borgov), dal timido Harry Melling (il primo rivale forte Harry Beltik) al super cool Thomas Brodie-Sangster (il cowboy della scacchiera e campione americano Benny Watts).