Dialoghi da una seduta dalla psichiatra, fitti come quelli di un film indipendente americano anni ’00, accendono nei primi minuti di questa serie turca lo scontro tra culture, oriente contro occidente, di cui la capitale turca è sempiterno teatro.
Mentre le vite degli otto protagonisti di “Bir Başkadır”si incontrano, si scontrano, si incrociano o si sfiorano come si trovassero in uno dei primi film di Inarritu, l’eterno contrasto vive forte in ogni scena, sottolineato da ciascun aspetto realizzativo della serie.
L’occidente è chiassoso, parlato, strillato, metropolitano, tecnologico, ostentoso, attraente, libero. L’oriente, che scopriamo attraverso i poveri sobborghi fortemente influenzati dalla religione di Istanbul, è povero, sussurrato, lento. Ha meno scelta, ma conserva una purezza abbagliante, rimarcata da una meravigliosa fotografia naturalista.
Scritta con arguzia, fotografata con arte, recitata in un diffuso stato di grazia, la serie non risolve il conflitto, ma raffigura con poesia la marcata ma docile coesistenza tra due anime più vicine di quanto pensino.
Grazie a tutto ciò, ma anche alla colonna sonora non originale che mescola vecchi strumentali e canzoni pop turche, siamo dalle parti serie dell’anno.