Guarda le posizioni dalla 50 alla 26 de I MIGLIORI 50 DISCHI DEL 2020

#25) Rà“ISàN MURPHY
Róisà­n Machine
[ Skint ]
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La ex voce dei Moloko torna in pista alla grande con un tour de force di quasi un’ora, zeppo di brividi nostalgici tra funky e deep-house. Negli anni d’oro della rinascita della musica disco, la Murphy azzecca uno dei migliori lavori della carriera e riscuote i giusti sospesi dalla risorgente che lei stessa ha contribuito a forgiare.
(And Back Crash)

#24) SORRY
925
[Domino]
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Lungo è l’elenco di artisti che in coppia hanno lasciato il segno, Asha Lorenz e Louis O’Bryen con un pop elettronico ricamato e infiocchettato per bene riescono a convincere quasi tutti.
Hanno sicuramente convinto me con le loro atmosfere elettroniche da pub londinese, e con la loro capacità  di realizzare un album indie votato al mainstream.
Altro disco arrangiato alla grande, violini, chitarre e sax valorizzano e completano il tutto.
(Fabrizio Siliquini)

#23) POPPY
I Disagree
[Sumerian Records]

Dopo essersi fatta conoscere come tenera ma inquietante youtuber, l’enigmatica Poppy ha deciso di concentrarsi esclusivamente sulla carriera musicale. Con il suo terzo album, pubblicato all’inizio del 2020, ha abbandonato in maniera definitiva tutte le velleità  di proporsi come la nuova Lady Gaga per inaugurare un percorso inaspettatamente heavy. Le dieci tracce di “I Disagree” sono tanto orecchiabili quanto pesanti; in esse coesistono in perfetta armonia elementi di nu metal, industrial, electropop e bubblegum pop. Vi sembra un casino? Può darsi che sia così. Per qualche inspiegabile ragione, però, riesce a farsi amare. A metà  strada tra Marilyn Manson e Gwen Stefani.
(Giuseppe Loris Ienco)

#22) BRUCE SPRINGSTEEN
Letter To You
[Columbia]
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Il Boss è tornato a ruggire: se già  con “Western Stars” era riuscito a ricreare certe atmosfere magiche dei giorni migliori, la conferma è avvenuta fragorosamente a distanza di un anno soltanto con “Letter To You”, ancora più immediato e rappresentativo del suo autore rispetto al precedente. Intense ballate e brani mid-tempo sono racchiusi in egual misura in un lavoro ispirato e autentico.
(Gianni Gardon)

#21) THE STROKES
The New Abnormal
[Cult Records/RCA ]
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Anche la doppietta iniziale “The Adult Are Taking” e “Selfless” è notevole quanto efficace, un inizio di quelli importanti, o una rumorosa ed elegante “Not The Same Anymore” sul finire, ma potrei anche citarle tutte le nove canzoni di un disco diretto, senza riempitivi, prodotto benissimo, scegliendo sempre, com’è nelle loro corde, la strada più semplice, con le accantonate chitarre di questi ultimi anni moderni a fare da attrici protagoniste, una album pieno zeppo di belle canzoni, che di questi tempi è merce rara, quindi: cos’altro chiedere di più?
(Fabio Campetti)

#20) CHARLI XCX
how i’m feeling now
[Atlantic Records]
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Il disco della quarantena per eccellenza. Regina indiscussa dell’elettropop, Charli XCX si è data come unico limite creare un disco in sei settimane. Per il resto, “how i’m feeling now” è l’espressione totale e incondizionata della creatività  dell’artista. Tra brani più soft e dolci come “forever” e la punta di diamante “claws”, Charli ci immerge in mondo futuristico dove è l’amore a prevalere, senza mai risultare ripetitiva o banale. Da dieci e lode.
(Dimitra Gurduiala)

#19) BILL CALLAHAN
Gold Record
[Drag City]
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Ogni nuovo disco di Bill Callahan è un piccolo (o grande) classico per chi ama il songwriting americano. E lui, da fuoriclasse assoluto, non sbaglia mai un colpo.
(Davide “Helmut” Campione)

#18) AGNES OBEL
Myopia
[Deutsche Grammophon]

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Quattro anni dopo “Citizen Of Glass” torna la voce eterea di Agnes Obel e non delude. “Myopia” è un disco più sobrio, quasi austero. Piano e voce con qualche inserto di elettronica e non occorre altro alla Obel per stregare il suo pubblico, costruendo brani di vera filigrana musicale. Delicata e toccante comme d’habitude
(Valentina Natale)

#17) OWEN
The Avalanche
[Polyvinyl Records]
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Ancora una volta quello che vince nella musica di Owen sono i dettagli, i piccoli particoliari più intimi che si notano ascolto dopo ascolto, mentre la voce e la chitarra (la base acustica è ben presente in questo disco) ci cullano, ci accarezzano e ci invitano a respirare ossigeno raramente così puro. Sobrietà , sempre, ma non minimalismo, attenzione. Arrangiamenti sempre curati, in modo che ogni strumento (dal piano, agli archi, alla chitarra, ovviamente) abbia spazi, tempi e caratura superiore.
(Riccardo Cavrioli)

#16) DOVES
The Universal Want
[Virgin/EMI]
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Un ritorno atteso e che definire soddisfacente, è dire poco. I componenti della band di Manchester dimostrano di non essere affatto dei riservisti, “The Universal Want” impressiona per coesione e gioco di squadra, ed è dimostrazione che alla classe, quella vera, il tempo può servire per affinarsi ed esaltarsi, per cercare qualità  in nuove avventure e nuovi sentieri, non di certo per invecchiare sui ricordi dei tempi che furono.
Welcome Back, Doves.
(Anban)

#15) KHRUANGBIN
Mordechai
[Dead Oceans]
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Con “‘Mordechai’ ci si imbarca da Houston, Texas, città  di provenienza del trio, per un giro del mondo in 43 minuti e 10 canzoni dove si diffondono suoni di ogni latitudine. Psichedelici e stilosi anche nell’abbigliamento – non sfigurerebbero come protagonisti di una campagna di Gucci – i Khruangbin sono ormai una sicurezza, migliorano di album in album, e in questo piazzano anche un paio di singoli-bomba, “”Time (You and I) e “‘Pelota’.
(Davide “Helmut” Campione)

#14) PAOLO BENVEGNU’
Dell’odio e dell’innocenza
[Black Candy]
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Dell’odio e dell’innocenza sin dal titolo va ad inquadrarsi perfettamente nello spirito della contemporaneità , offrendo alcune tra le pagine più poetiche della carriera di Benvegnù. Ennesima conferma di un artista che è doveroso considerare patrimonio d’Italia
(Corrado Frasca)

#13) THE FLAMING LIPS
American Head
[Bella Union Records]
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Con una carriera alle spalle così ricca di episodi memorabili e salienti per la scena musicale alternativa che poggia le sue radici negli anni ottanta, i Flaming Lips possono permettersi il lusso di non dover inventarsi più nulla per stupire, meravigliare, finanche estasiare i fedeli appassionati che li seguono da sempre. Eppure con “American Head” sono stati ancora una volta in grado di conquistarmi, dalla prima all’ultima traccia: un album emozionante, ispirato, policromo, che ti entra sotto pelle e lascia il segno.
(Gianni Gardon)

#12) BDRMM
Bedroom
[Sonic Cathedral]
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Ascoltando questo magnifico esordio ci sembra davvero di ritrovare quelle magnifiche sensazioni che abbiamo sperimentato assaporando il primo disco dei Ride. Non parlo tanto nei suoni, che a tratti si possono accostare ma in realtà  sanno anche distanziarsi a dovere, quanto proprio in quello smottamento emotivo che ci cattura fin da subito. Le onde della copertina dell’ esordio dei Ride, quelle che battevano sul nostro cuore e ci scivolavano nel profondo, sono anche qui, tra i solchi di un album da pelle d’oca, vulnerabile, malinconico e dannatamente coinvolgente.
(Riccardo Cavrioli)

#11) PARADISE LOST
Obsidian
[Nuclear Blast]
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Con ogni probabilità  anche le undici tracce di “Obsidian”, con il loro equilibratissimo mix tra chitarre infernali e oscure melodie, saranno accolte con un pizzico di sorpresa dai nostalgici dei fasti di “Icon” o “Draconian Times”, cui i nostri sembrano guardare come modelli di riferimento.
(Riccardo Cavrioli)

#10) PORRIDGE RADIO
Every Bad
[Secretly Canadian]
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In un universo parallelo, questo è stato l’anno dei Porridge Radio: dopo il rilascio dell’atteso secondo disco, li aspettava un tour de force di festival e un tour negli Stati Uniti. Quell’energia è rimasta invece tutta inscatolata in queste undici canzoni: urlate e sussurrate, fragili e sicure di sè, ci ricordano come sapevamo essere vivi prima del Coronavirus, come vogliamo tornare ad esserlo.
(Francesco Negri)

#9) ADRIANNE LENKER
songs & instrumentals
[4AD]
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A marzo Adrianne Lenker era nel bel mezzo di un lungo tour europeo con i suoi Big Thief, quando in una nazione dopo l’altra sono scattati i lockdown. Nel giro di poche settimane, è tornata negli Stati Uniti e si è rifugiata in una baita di montagna (“sembrava l’interno di una chitarra acustica”, ha detto). Ne sono nate una manciata di canzoni eccezionali, che dall’isolamento trovano la forza di raccontare le relazioni che ci fanno umani.
(Francesco Negri)

#8) PHOEBE BRIDGERS
Punisher
[Dead Oceans]
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Phoebe Bridgers era molto attesa alla prova del nuovo album, dopo il folgorante esordio che ne mise in luce alcune notevoli peculiarità , tra cui buone capacità  di scrittura e la varietà  di stili e rimandi. Pur rimanendo legata a certe sonorità  intime e sognanti, con “Punisher” è riuscita felicemente a rinnovarsi, nel segno di una produzione più curata e di composizioni ariose ed aperte a nuove orizzonti musicali.
(Gianni Gardon)

#7) THE WEEKND
After Hours
[Republic Records]

Un’umile ammissione: non avevo alcuna intenzione di mettere quest’album in classifica. Non sono mai stata una particolare fan di The Weeknd, ma bisogna pur dare a Cesare quel che è di Cesare, no? Dunque, perchè non riconoscere la validità  artistica del suo ultimo disco, “After Hours”? è una montagna russa di suoni ed emozioni, tra R&B e dream pop; un disco eccellente con hit altrettanto valide (“Save Your Tears” e “In Your Eyes” ad esempio, oltre alla già  acclamata “Blinding Lights”) da ogni punto di vista, che immerge l’ascoltatore nella mente di Abel e lo fa innamorare. Ottimo lavoro.
(Dimitra Gurduiala)

#6) TAME IMPALA
The Slow Rush
[Modular]
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Un ‘caleidoscopio di suoni’.I Tame Impala sono forse l’unico caso in cui questa abusata definizione calza a pennello. La band australiana è una delle poche ad esser riuscita a coniugare sonorità  multicolore dalle tinte pop, psichedelia e mainstream, pezzi da heavy rotation radiofonica e grezze gemme per cultori del genere. “The Slow Rush” ne è la conferma: basterebbe la doppietta “Lost in Yesterday” ““ “Is it True” a renderlo uno di migliori dischi dell’anno, e invece per nostra fortuna ci sono altre dieci canzoni (quasi) dello stesso livello.
(Davide “Helmut” Campione)

#5) FLEET FOXES
Shore
[Anti-]
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Quanta acqua è passata sotto i ponti dall’eponimo debutto del 2008. Stavolta Robin Pecknold registra tutto da solo e realizza un disco arioso, pieno di luce, che campiona i Beach Boys e rende omaggio a Victor Jara.

(Francesco Negri)

#4) IDLES
Ultra Mono

[Partisan]
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Essere sè stessi paga. Gli IDLES stanno conducendo un’orda di persone di buon cuore incazzate sulla cima del mondo per riversare di sotto tutte le proprie rimostranze.
(Do you hear that thunder? That’s the sound of strength in numbers.)
Questi sono i nuovi slogan cognati dal basso, non da uno studio di marketing pubblicitario. La voce è la nostra, il ritmo è irresistibile, la potenza è verace, distruttiva e costruttiva all’unisono.
Gli IDLES sono i pionieri di un nuovo mondo e di un nuovo genere musicale, entrambi molto simili alle ceneri dalle quali stanno sorgendo.
(Federico Guarducci)

#3) PERFUME GENIUS
Set My Heart On Fire Immediately
[Matador Records]
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Il fatto che “Set My Heart On Fire Immediately”, alla fine di questo anno, si sia piazzato nella mia classifica di gradimento solo al quinto posto sta a testimoniare, che almeno musicalmente questo non sia stato un brutto anno.
Mike Hadreas si muove tra mainstream, art pop e sperimentazione riuscendo a fare colpo indifferentemente su ogni ascoltatore sia esso poco attento o fanatico dei particolari, a completare il tutto testi mai banali, artista vero .
(Fabrizio Siliquini)

#2) FONTAINES D.C.
A Hero’s Death
[Partisan Records]
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Come pensate possa essere la fine di un eroe? Gelida, vuota, buia, una stretta nichilista lunga circa 47 minuti attorno tutto ciò che pensiamo sia importante, ma che, invece, ha già  il non-sapore della morte dentro di sè. Finchè apparterremo alle nostre vite iper-tecnologiche, alle nostre carriere aziendali, ai nostri simulacri social, non potrà  che essere così.
(Mik Brigante Sanseverino)

#1) FIONA APPLE
Fetch The Bolt Cutters
[Epic]

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L’attesa è stata lunga ma ripagata da un album ricchissimo di spunti, vibrazioni e sentimenti. Tredici brani casalinghi, voce spesso roca e rabbiosa. L’amato pianoforte, chitarre, percussioni, un flusso musicale continuo e travolgente, grintoso e viscerale. Fiona Apple come Nina Simone, un’artista che fa esattamente ciò che vuole per sua e nostra fortuna
(Valentina Natale)

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Credit grafica: Luca Morello (Scismatica)