#10) BRUCE SPRINGSTEEN
Letter To You
[Columbia]
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Il Boss è tornato a ruggire: se già con “Western Stars” era riuscito a ricreare certe atmosfere magiche dei giorni migliori, la conferma è avvenuta fragorosamente a distanza di un anno soltanto con “Letter To You”, ancora più immediato e rappresentativo del suo autore rispetto al precedente. Intense ballate e brani mid-tempo sono racchiusi in egual misura in un lavoro ispirato e autentico.
#9) PHOEBE BRIDGERS
Punisher
[Dead Oceans]
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Phoebe Bridgers era molto attesa alla prova del nuovo album, dopo il folgorante esordio che ne mise in luce alcune notevoli peculiarità , tra cui buone capacità di scrittura e la varietà di stili e rimandi. Pur rimanendo legata a certe sonorità intime e sognanti, con “Punisher” è riuscita felicemente a rinnovarsi, nel segno di una produzione più curata e di composizioni ariose ed aperte a nuove orizzonti musicali.
#8) FLEET FOXES
Shore
[Anti]
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Robin Pecknold, sempre più in sella ai Fleet Foxes, ormai in pratica una sua emanazione diretta, rischia di diventare quasi “noioso” nel farci immaginare cosa riusciremo a trovare all’interno di ogni suo album. Eppure, anche in questo nuovo viaggio musicale, è riuscito ad accompagnarci per mano dall’inizio alla fine senza mostrare cedimento alcuno, forte di una capacità innata di rinsaldare legami con un sound classico, se vogliamo, ma che grazie ad arrangiamenti deliziosi e alla giusta inventiva musicale, ci giunge straordinariamente attuale e vitale.
#7) OLDEN
Prima che sia tardi
[Vrec Music Label]
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Davide Sellari, in arte Olden, confeziona un album che guarda alla grande tradizione cantautorale italiana. “Prima che sia tardi” lo consacra nell’ambito della canzone d’autore, che rinverdisce con vivacità narrativa e gusto per gli arrangiamenti. E’ suo, a mio avviso, il miglior album italiano dell’anno.
#6) PORRIDGE RADIO
Every Bad
[Secretly Canadian]
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Nei giovanissimi Porridge Radio convivono nel migliore dei modi tante istanze musicali riconducibili a un’estetica smaccatamente britannica: dal classico post-punk all’indie rock più contemporaneo, da coraggiose escursioni in territori dreamy all’eredità britpop che ogni tanto fa capolino, il tutto filtrato da inaudita freschezza compositiva e felici intuizioni melodiche.
#5) MATT BERNINGER
Serpentine Prison
[Concord Records]
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Il leader dei The National al suo esordio da solista non tradisce le aspettative e realizza un album intenso, profondo e viscerale, pur destreggiandosi per lo più in territori acustici e intimisti. Dalla prima all’ultima nota si avverte un forte senso di urgenza comunicativa che riesce ad arrivare all’ascoltatore in modo genuino e spontaneo.
#4) BDRMM
Bedroom
[Sonic Cathedral]
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L’esordio dei bdrmm è di quelli che si fanno ricordare e che non lasciano indifferenti, tra soluzioni melodiche e onirici muri di chitarre, a omaggiare quel buon sano shoegaze anni novanta di cui si prestano a diventare principali e credibili testimoni.
#3) BEABADOOBEE
Fake It Flowers
[Dirty Hit]
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Nel 2020 è ancora possibile lasciarsi travolgere da sonorità rock che richiamano alla mente i favolosi nineties. Se poi queste provengono copiose dal cuore di una ventenne, a maggior ragione sono ben gradite. L’anglo-filippina Beabadoobee manda a memoria la lezione di Breeders e Pixies, ci spruzza una giusta dose di fragrante e freschissimo pop ed ecco che la miscela musicale si rivela assolutamente irresistibile.
#2) RUFUS WAINWRIGHT
Unfollow the Rules
[BMG]
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Il cantautore americano Rufus Wainwright, dopo aver sperimentato per gran parte del decennio, mette il sigillo sugli anni dieci con un album degno dei suoi migliori lavori, quelli che l’avevano fatto emergere come uno tra i più interessanti esponenti di certo songwriting che non disdegna escursioni nel pop più nobile. In “Unfollow the Rules” infatti lo troviamo nuovamente alle prese con canzoni dalla forte impronta autoriale che però sono inserite in un apparato musicale vivace e oltremodo rilevante.
#1) THE FLAMING LIPS
American Head
[Bella Union Records]
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Con una carriera alle spalle così ricca di episodi memorabili e salienti per la scena musicale alternativa che poggia le sue radici negli anni ottanta, i Flaming Lips possono permettersi il lusso di non dover inventarsi più nulla per stupire, meravigliare, finanche estasiare i fedeli appassionati che li seguono da sempre. Eppure con “American Head” sono stati ancora una volta in grado di conquistarmi, dalla prima all’ultima traccia: un album emozionante, ispirato, policromo, che ti entra sotto pelle e lascia il segno.