Nella lunga tradizione di qualità  di HBO si inserisce a buon diritto anche questa miniserie “Un volto, due destini”, inappropriato ancora una volta titolo italiano per “I know this much is true”, adattamento in sei puntate dell’omonimo libro del di Wally Lamb, che ha permesso a Mark Ruffalo di vincere l’Emmy di genere per la sua interpretazione.

Da subito, meritatissimo il premio si intende,senza addentrarci nei meccanismi che portano alla scelta dei candidati, perchè qui con questa serie siamo di fronte a quei casi in cui non si riesce a prescindere dalla valutazione sulla performance attoriale nel giudicare l’opera, dove questo mastodontico attore, in evidente stato di grazia, nella doppia parte di fratello gemello satura anche fisicamente gran parte di quello che semplicemente esce dallo schermo, il che a volte non è sempre una caratteristica che depone a favore della buona riuscita del prodotto (il Di Caprio con Inarritu ad esempio, o altri film fatti quasi su commissione e su misura del protagonista).

In “I know this much is true” questo non succede, vuoi perchè trattasi di riduzione letteraria, vuoi perchè dietro in cabina c’è Derek Cianfrance, autore e regista americano fra i più dotati e sensibili dell’ultima generazione, alla prova della sua prima esperienza sul piccolo schermo, riuscendo anche in questo nuovo formato   a riprodurre la sua estetica anche nella formula di adattamento televisivo. La materia d’altra parte si confà  all’humus dell’autore di “Blue Valentine”: ripercorrere la storia americana di una famiglia attraverso lo sviluppo delle connessioni relazionali che la defiiscono nel corso degli anni.

Cianfrance sta da sempre dalla parte dell’America nascosta, quella che non passa nei rotocalchi, quella che lavora e che si rifugia in se stessa, e lo fa senza connotazioni politiche, dando un enorme senso di appartenenza ad un popolo con virtù, molto vizi, ma anche pregi e fragilità ; non ci sono personaggi da palcoscenico, ma come al solito nella migliore tradizione del cinema statunitense, ogni figura è al centro del suo proprio palco della vita, come se comunque per ogni singolo minutaggio vi fosse un urgenza di profondità , una pienezza da riempire. Sempre.

Perchè questa serie è piena sempre, dopo i primi 5 minuti con la morte della madre siamo già  “in medias res”, fino alla fine, fino all’ultima scena si è immersi in questa vibrante umanità  anche a tratti di una commozione irresistibile (episodi 1, 4 e tutto il finale), con un’empatia a cui si sfugge a fatica; sarà  per questo che la serie di per sè è un po’ passata sotto tono, persa nei meandri forse delle troppe uscite, persa in un clima da euforia per l’online, dove si sfocia la voglia di evasione da una realtà  triste come la presente mentre qui la realtà  vera ti viene appiccicata addosso, e probabilmente non era il momento per una gran fetta di utenti Sky.

L’impostazione autoriale di Cianfrance si manifesta facendo girare l’impianto narrativo attorno appunto ai gemelli Birdsey, in particolare a quello sano, Dominck, catalizzatore di tutto quello che gli succede attorno, con la sua strabordante umanità  che contagia e attira nel bene e nel male tutti gli altri personaggi coinvolti.

Noi vediamo Dominick in balia del suo destino fra ex moglie, nuova fidanzata, patrigno, fratello gemello, assistente sociale, capace di assorbire tutti i grovigli emotivi di questa parte di vita che coincidono con amori spezzati tragicamente, relazioni con padri mai visti, nuove fiamme troppo giovani, con in mezzo a tutto questo il rapporto gemellare col fratello malato, di fatto il motore dell’intero svolgimento.

Il plus della serie è proprio questo, la straordinaria interpretazione di un rapporto ancestrale, di dipendenza emotiva e quasi sensoriale fra i gemelli, nella loro unicità  sdoppiata, fra mente razionale e irrazionale, fatta di scazzottate, tranci di mano, lacrime e carezze, con Mark Ruffalo che si presta, in questa sua fisicità  ingombrante nel caso di Dominick, straordinario, e con la sua tenerissima mollezza nel caso di Thomas, con gli sguardi feroci di un loser indomito e quelli persi nella mente dell’altro. Un attore come detto in stato di grazia, in quella fase artistica di consapevolezza delle proprie capacità  e di scelta del copione adeguato (non a caso è anche produttore).

Cianfrance lo coglie sempre con questo suo indugiare su primi piani fermi, lunghi, di attesa di un movimento labiale, di una stizza , con questi colori aperti, naturali della provincia americana (suo marchio di fabbrica), non lussureggianti, ma vivi, operosi, che trasudano esperienza e decenni di vita vissuta; lo script, le scene, soprattutto di interni, esprimono questa familiarità  , certo forse un po’ fragile e poco strutturata per noi europei, ma intensa e piena. Ci sono come in altri casi della filmografia del regista statunitense delle situazioni al limite dell’eccessivo nella narrazione (la scena in cui Dominick spiega la vasectomia ad esempio, ma anche altre), che potevamo essere evitate e forse inseriscono un elemento di pesantezza, ma questa eccedenza emotiva è un po’ tipica dell’America per come la vediamo riprodotta noi europei, ed è probabilmente un semplice discorso di diversa sensibilità  che va al di là  dell’escamotage della sceneggiatura.

Ma insomma sono dettagli di fronte ai tanti meriti di questi sei episodi, in primis la capacità  nel riprodurre gli affetti familiari, quei legami flessibili, mai rotti, la frequenza umorale delle riconciliazioni , indipendente dalle novità , indissolubili al di là  delle cose, delle fasi: non a caso si parte e si finisce con la parabola del nonno siciliano (aderente l’apparizione del nostro Marcello Fonte nei sui panni), che cuce i legami col presente con un rimando generazionale (“connections”) che tende a dare un senso alla realtà , quando la vita va più veloce della realtà  e ci si accorge all’improvviso che quel “molto che abbiamo è vero”.