Di “Ad Astra” ne ho sentito parlare più male che bene. Dopo averlo visto proprio non capisco perchè. James Gray ha un approccio molto asciutto e sobrio nell’impossessarsi dei generi cinematografici che sceglie di percorrere, che se da una parte gli fa spesso rischiare l’impersonalità , dall’altra garantisce solidità e assenza di sbavature. In “Ad Astra” succedono entrambe le cose: Gray non inventa nulla, ma costruisce un western spaziale duro e credibile, che mette le coscienze dei protagonisti prima degli effetti speciali.
Più che la trasversata spaziale a tappe (si va sulla Luna, di lì si salpa per Marte, infine alla volta di Nettuno), comunque non priva di momenti interessanti ed eccitanti (il soccorso alla stazione di ricerca sui primati, la corsa sui rover sulla Luna), ad essere centrali in questo film sono i pensieri, le paure, le riflessioni dei protagonisti sul proprio scopo, sull’ineluttabile confronto con i propri genitori.
Una cosa che ho trovato molto interessante è il modo in cui il film si discosta dagli stereotipi delle pelicole spaziali fatte di maschi giovani e nel pieno delle proprie forze. In “Ad Astra” non si contano gli astronauti vecchi e stanchi (Sutherland, Lee Jones) e lo stesso Brad Pitt è spompato, corrucciato, compassato e meditabondo. Scelta assolutamente in tema con l’inclinazione per la meditazione della sceneggiatura.